Lo studio proposto mira a un’indagine sul processo amministrativo nella prospettiva della sentenza e si ricollega a quella riflessione dottrinale che nella fortunata – e ancora attuale – formula del contenuto conformativo, aveva espresso l’esigenza di una pronuncia che definisse nel giudizio principale i rapporti fra le parti, vincolasse l’amministrazione nel successivo esercizio del potere amministrativo e restituisse alla tutela del cittadino quella effettività che, diversamente, solo il giudice dell’esecuzione sembrava in grado di garantire. L’entrata in vigore del codice del processo amministrativo ha rappresentato l’occasione per una nuova riflessione sul tema; al tempo stesso, l’indagine sul contenuto della sentenza ha offerto un punto di osservazione particolare su uno dei motivi dominanti (anche) di questo nuovo corso della giustizia amministrativa, cioè quello della atipicità dei rimedi giurisdizionali nei confronti dell’amministrazione. Il riconoscimento della atipicità delle forme di tutela è la premessa necessaria per uno studio che, concretamente, ha assunto quale riferimento normativo più immediato la previsione della astratta facoltà del giudice, nell’accogliere il ricorso, di disporre «le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese» fino alla nomina di un commissario ad acta. La tesi proposta, infatti, presuppone la possibile scissione fra i contenuti delle decisione adottabili dal giudice e le forme di tutela corrispondenti alle singole azioni disciplinate dal legislatore. La prima fase dello studio è dedicata alla definizione dei “limiti esterni”, prendendo in specifica considerazione le tematiche della giurisdizione di merito e della “riserva di amministrazione”. L’indagine proposta, nella parte iniziale, mira alla rottura di quel fenomeno di sostanziale assimilazione fra il giudizio di ottemperanza e la giurisdizione di merito in cui, quasi in una logica circolare, l’uno (l’ottemperanza) trae la sua giustificazione dall’altra (la giurisdizione di merito) e viceversa. Semplificando, si ritiene che il giudice dell’ottemperanza possa sostituirsi all’amministrazione solo perché si è in presenza di una fattispecie di giurisdizione di merito. Parimenti, la giurisdizione di merito è considerata elemento essenziale nel sistema delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, in quanto necessaria a giustificare le peculiarità del ricorso per l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato. Questa “rottura”, nel caso di specie, è funzionale a un’ autonoma caratterizzazione dei due istituti, allo scopo di verificare se – e in che modo – ciascuno di essi rappresenti un limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo. Il percorso di progressivo allontanamento fra la giurisdizione di merito e il giudizio di ottemperanza passa, preliminarmente, attraverso la riduzione del carattere polisenso e frammentario della nozione “giurisdizione di merito”, nell’intento di far convergere la «giurisdizione con cognizione estesa al merito» nella “giurisdizione piena” del giudice amministrativo. Se si assume la «giurisdizione con cognizione estesa al merito» quale locuzione più ampia per indicare le materie in cui il giudice amministrativo ha piena giurisdizione, il “merito” non è un ostacolo all’ampliamento dei contenuti della sentenza nella direzione indicata dall’art. 34, comma 1, lett.e). A questi aspetti sono dedicati i primi due capitoli del volume. Il primo descrive il modello astratto di giurisdizione di merito che emerge dal codice del processo amministrativo evidenziando gli elementi di tradizione e quelli, invece, di discontinuità rispetto al passato. Il testo elaborato dal legislatore del 2010, infatti, ripropone, almeno apparentemente, la duplice connotazione della giurisdizione di merito come “giurisdizione piena” e come “giudizio di opportunità”, ormai consolidata in dottrina e utile in passato a ricondurre il più possibile a unità le diverse materie in essa ricomprese. In questa parte dello studio l’indagine assume anche una prospettiva storica, nell’intento di descrivere, attraverso l’analisi diacronica delle principali norme sul processo amministrativo, le ragioni del peculiare affermarsi di un modello di giurisdizione di merito quale giudizio di opportunità fino alla sua sostanziale sovrapposizione con il giudizio di ottemperanza. È la ricostruzione storica, seppur compiuta nei suoi aspetti essenziali, che fa emergere come, in realtà, l’approdo del giudizio di opportunità altro non sia stato se non l’effetto delle sorti alterne delle materie attribuite alla giurisdizione di merito. Pur nella eterogeneità dei loro contenuti, le fattispecie in cui il giudice pronunciava anche nel merito si caratterizzavano per l’ampia possibilità per il collegio di conoscere la vicenda nella sua interezza, sia in fatto che in diritto, grazie alla attribuzione degli stessi mezzi istruttori del giudice civile, in ipotesi, fra l’altro, estranee da qualsiasi profilo di valutazione dell’interesse pubblico. Le peculiarità della giurisdizione di merito emergevano nelle dinamiche della quaestio facti, sulla scia di un ricercato parallelismo con la giurisdizione ordinaria. Sinteticamente, il giudizio di legittimità, al pari di quello in Cassazione, era un giudizio di pieno diritto; nella giurisdizione di merito, come nelle controversie avanti alla Corte di appello, si consentiva invece una nuova valutazione degli elementi di fatto, per giungere, eventualmente, alla modifica o alla riforma dell’atto gravato. L’ampliamento delle materie di giurisdizione esclusiva a scapito di quella di merito, la desuetudine di molte delle fattispecie rimanenti e l’ abolizione delle Giunte Provinciali amministrative hanno progressivamente determinato la prevalenza del modello del giudizio di ottemperanza e, con essa, l’arretramento dei caratteri tipici della giurisdizione piena. Il passaggio da una iniziale convergenza nella “giurisdizione piena” al dominio del “giudizio di opportunità” non ha un significato meramente classificatorio ma segna lo spostamento della valutazione del “ merito” dalla fase della cognizione a quella della decisione. Il giudizio di opportunità finisce così per descrivere l’attività valutativa che compie il giudice nell’adottare una determinazione sostitutiva di quella dell’amministrazione; la piena ricostruzione del fatto, invece, diventa meramente strumentale all’esercizio di tali poteri decisori. La giurisdizione di merito si è così presentata all’appuntamento con la codificazione quale “giudizio di opportunità”, in cui il giudice può sostituirsi all’amministrazione. Questo approdo del giudizio di opportunità è, però, piuttosto incerto e ambiguo, per la sua incapacità, da un lato, di identificare, unitariamente, le ipotesi di giurisdizione estesa al merito, dall’altro, di descrivere, realmente, le dinamiche dell’ottemperanza. La chiave per superare l’impasse del codice e individuare la presenza di sintomi di discontinuità rispetto alla tradizione, più che nelle norme sulla giurisdizione di merito, può essere trovata approfondendo il significato delle formule di sintesi - «giurisdizione piena» - «giudizio di opportunità» - cui si è fatto ricorso per una sua descrizione il più possibile unitaria. La «giurisdizione piena» si è arricchita di contenuti di maggior tutela rispetto alla capacità del giudice amministrativo di procedere a un’autonoma ricostruzione dei fatti, oltre la rappresentazione offertane dall’amministrazione. È questa, infatti, l’aspirazione di tutti i giudizi di legittimità e resa possibile dalla disciplina ormai indifferenziata dei mezzi di prova. In tale contesto, la giurisdizione di merito o scompare, riassorbita nel giudizio di legittimità, oppure necessita di una rinnovata chiave di lettura, qual è quella che si intende proporre, attraverso la lente della “nuova” giurisdizione piena. Il «giudizio di opportunità», a sua volta, non rappresenta una alternativa valida a contraddire la soluzione avanzata. Nella riflessione sulla giurisdizione di merito, prima della “contaminazione” del modello dell’ottemperanza, il giudizio di opportunità si inseriva, comunque, nelle dinamiche della questio facti. Poiché la piena conoscenza dei fatti si considerava un predicato esclusivo di un giudizio sul rapporto, per la tutela di diritti soggettivi, la medesima operazione, rapportata a un processo incentrato sulla legittimità dell’atto, varcava necessariamente il limite della legittimità, per collocarsi nella sfera del merito. Questa peculiare connotazione del giudizio di opportunità, quale categoria sotto la quale ricondurre la giurisdizione di merito, non solo è superata - in quanto insufficiente, se non superflua, a descrivere le dinamiche dell’accesso al fatto del giudice amministrativo – ma è altresì inidonea a sintetizzare quella attività di ponderazione e valutazione degli interessi pubblici che caratterizza lo schema decisorio dell’ottemperanza. Il percorso di reductio ad unum dei significati della giurisdizione di merito, approda così alla rottura di quel fenomeno di assimilazione con il giudizio di ottemperanza, a favore di una autonoma caratterizzazione dei due istituti. Ai fini specifici dello studio, alla separazione dei modelli consegue la possibilità di definire con maggiore chiarezza i limiti esterni all’ampliamento della sentenza di cognizione fino a ricomprendere misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato. Le dinamiche della giurisdizione di merito - sia come giurisdizione piena che come giudizio di opportunità - si risolvono nell’ambito dei poteri di cognizione del collegio. La giurisdizione di merito, così ricostruita, non è un limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza. Il giudizio di ottemperanza, invece, spinge la riflessione direttamente sui poteri di decisione del giudice e, ai fini specifici di questo studio, alla fissazione dei confini fra quanto possa ricomprendersi nel contenuto conformativo della sentenza e quanto, invece, nell’ottemperanza vera e propria. L’indagine si sposta, pertanto, sul tema della riserva di amministrazione e su quello, correlato, della sostituzione giurisdizionale, nella ricerca di una soluzione che riesca, al contempo, a giustificare l’esistenza di un ambito inaccessibile alla sentenza di cognizione e a fondare la capacità del giudice di “superarlo”, adottando una decisione sostitutiva. L’idea, in sintesi, è la necessaria esistenza di una riserva a favore dell’amministrazione che, solo avanti ad esigenze costituzionalmente rilevanti - quella del diritto a una tutela effettiva delle situazioni giuridiche soggettive - e nei limiti fissati dalla legge, consenta la surroga del giudice all’amministrazione. Il fondamento costituzionale è quello della effettività – legalità, intesa quale legalità – garanzia, in linea di continuità e non di rottura con il principio di divisione di poteri. La Costituzione, così come legittima l’affermazione della riserva, parimenti consente, se non esige, un suo superamento, a garanzia dell’effettività della tutela delle situazioni giuridiche soggettive violate. In questa prospettiva, la giurisdizione di merito appare inadeguata a descrivere lo schema teorico entro cui ricondurre fattispecie di sostituzione giudiziaria, fissate ex lege; il giudizio di ottemperanza, a sua volta, non necessita della giurisdizione di merito per legittimare la sua presenza nel sistema delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, perché è la Costituzione, nel combinato disposto degli articoli 24 e 113, a dimostrarne l’indispensabilità. La “riserva di amministrazione” e non la “giurisdizione di merito” rappresenta, più propriamente, il limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo. La tenuta del modello astratto descritto nel primo capitolo è messa successivamente alla prova avanti alla disciplina, in concreto, delle materie in cui, in base alle previsioni del codice, il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito. L’esame del rito elettorale, delle controversie sui confini di enti territoriali, dei giudizi sul diniego di nulla osta cinematografico e sulle sanzioni pecuniarie conferma la praticabilità della soluzione proposta e la sua compatibilità con la giurisdizione «con cognizione estesa al merito». Il positivo riscontro circa l’incapacità della giurisdizione di merito a porsi quale limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza, rischia, però, di essere smentito dal peculiare atteggiarsi della giurisdizione di merito per le sanzioni alternative alla declaratoria di inefficacia del contratto e, più in generale, dalla possibilità di ricostruire le decisioni sulle sorti del contratto quale ipotesi innominata di giurisdizione di merito. Nelle controversie sui contratti, infatti, potrebbe essere individuata una nuova e diversa connotazione della giurisdizione di merito, stante la valutazione affidata al giudice nel modulare gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione e, soprattutto, l’attribuzione all’autorità giudiziaria di una potestà sanzionatoria diretta, altrimenti riservata a una autorità amministrativa. Lo studio, in questa parte, si compone di una pars destruens e di una pars costruens che, conducono, rispettivamente, a negare la qualificazione delle controversie sui contratti quali fattispecie innominate di giurisdizione di merito, proponendone invece una rilettura attraverso la lente dell’art. 34, comma 1, lett. e). Proseguendo in questa pars costruens, la seconda parte dell’indagine punta invece a un’autonoma caratterizzazione del contenuto conformativo della sentenza. L’esame dei profili di diritto interno è preceduta da una breve digressione sulle esperienze di ordinamenti stranieri, in particolare quello francese e quello tedesco. Non a caso, si preferisce parlare di “influenze”, ad indicare la volontà di svolgere non un’indagine comparata delle diverse forme di esecuzione ma di verificare se, e in che modo, possano contribuire alla definizione del modello decisorio dell’art. 34, comma 1, lett.e). Le soluzioni del diritto straniero, interpretate attraverso le categorie del diritto interno, si ricollegano direttamente al contenuto conformativo della sentenza. Di più. Dal confronto con gli ordinamenti stranieri, in cui manca un rimedio come l’ottemperanza, non solo derivano elementi positivi a favore dell’ipotesi ricostruttiva proposta ma emerge altresì la capacità del processo italiano di garantire, de iure condito, un risultato di maggior tutela. La seconda parte è dedicata principalmente alla caratterizzazione del contenuto conformativo della sentenza. La riflessione, in quest’ultima fase, si muove in due direzioni distinte, seppur collegate. Sono definiti, innanzitutto, i presupposti per la pronuncia di una sentenza ex art. 34, comma 1, lett.e), con particolare attenzione alla relazione fra il principio della domanda e i poteri esercitabili d’ufficio dal giudice. Alla dinamica dei rapporti fra giudice, privati e amministrazione è infatti correlata la realizzazione dei risultati complessivamente attesi dall’indagine, al di là dei singoli contenuti della sentenza. L’obiettivo cui mira questo nuovo atteggiarsi dei poteri del giudice è la possibilità di introdurre un sistema di preclusioni processuali, corrispondente a quello del «dedotto e del deducibile», prevalentemente negato dalla dottrina, salvo alcune eccezioni e, al più, ammesso dalla giurisprudenza per le sole decisioni di rigetto. Questi profili sono esaminati attraverso l’ideale contrapposizione fra i risultati attesi e quanto separa dalla loro realizzazione, avanti a una disciplina processuale che, da un lato, consente l’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza, ponendo positivamente le basi per il loro raggiungimento e, dall’altro, allontana ancora l’interprete da quegli obiettivi. Le ripetute censure della dottrina e della giurisprudenza alle scelte compiute dal legislatore nella disciplina dei poteri decisori del giudice – e, dunque, alla riduzione del catalogo delle azioni - hanno finito per mettere ulteriormente nell’ombra uno dei nodi tuttora problematici del giudizio amministrativo, qual è quello dei poteri di cognizione del giudice. È qui, di conseguenza, che si celano gli ostacoli che distanziano maggiormente dall’obiettivo. L’estensione del contenuto conformativo della sentenza riesce ad essere davvero garanzia di effettività della tutela, assicurando la stabilità del giudicato avanti al successivo esercizio dell’azione amministrativa, laddove le parti, in special modo quelle private, siano realmente messe in condizione di esercitare il contraddittorio su tutti gli elementi della vicenda sub iudice e di scegliere consapevolmente quanto dedurre a sostegno delle proprie ragioni. Più in particolare, la reale capacità della sentenza ex art. 34, comm 1 lett. e) di assicurare una risposta di giustizia efficace è ancora fortemente condizionata dal concreto atteggiarsi di quell’equilibrio fra il principio dispositivo e metodo acquisitivo che da sempre caratterizza il processo amministrativo, anche quello disciplinato dal codice, e che è oggi chiamato a confrontarsi anche con il principio di non contestazione. Alcuni degli elementi di criticità affrontati in questa prima parte caratterizzano altresì l’esame specifico delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 34, comma 1, lett. e) del codice. Sono stati principalmente i giudici a valorizzare la facoltà concessagli dal codice di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato per giustificare decisioni dai contenuti di adempimento e per avallare la tendenza a distaccarsi dai modelli tradizionali della tutela di annullamento, avanti a censure di incompetenza o di violazione di legge. Lo studio si sofferma, di conseguenza, sui modelli di tutela ricavabili da tale giurisprudenza, analizzandone gli aspetti positivi e quelli, invece, di maggiore perplessità. La descrizione si conclude con l’esame delle misure aventi funzione tipicamente monitoria, volte a sollecitare la pronta ottemperanza alla pronuncia. Simili prescrizioni sono idealmente divise in due categorie. All’esame di una prima tipologia di misure tipiche, in quanto contemplate espressamente dal legislatore (fissazione di un termine per adempiere, nomina di un commissario ad acta), si affiancano alcune considerazioni sulla possibilità di un anticipo di astreintes nella sentenza di cognizione, seguendo un modello non più esclusivo dei processi stranieri ma anche quello italiano

Il contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo

GIUSTI, ANNALISA
2012

Abstract

Lo studio proposto mira a un’indagine sul processo amministrativo nella prospettiva della sentenza e si ricollega a quella riflessione dottrinale che nella fortunata – e ancora attuale – formula del contenuto conformativo, aveva espresso l’esigenza di una pronuncia che definisse nel giudizio principale i rapporti fra le parti, vincolasse l’amministrazione nel successivo esercizio del potere amministrativo e restituisse alla tutela del cittadino quella effettività che, diversamente, solo il giudice dell’esecuzione sembrava in grado di garantire. L’entrata in vigore del codice del processo amministrativo ha rappresentato l’occasione per una nuova riflessione sul tema; al tempo stesso, l’indagine sul contenuto della sentenza ha offerto un punto di osservazione particolare su uno dei motivi dominanti (anche) di questo nuovo corso della giustizia amministrativa, cioè quello della atipicità dei rimedi giurisdizionali nei confronti dell’amministrazione. Il riconoscimento della atipicità delle forme di tutela è la premessa necessaria per uno studio che, concretamente, ha assunto quale riferimento normativo più immediato la previsione della astratta facoltà del giudice, nell’accogliere il ricorso, di disporre «le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese» fino alla nomina di un commissario ad acta. La tesi proposta, infatti, presuppone la possibile scissione fra i contenuti delle decisione adottabili dal giudice e le forme di tutela corrispondenti alle singole azioni disciplinate dal legislatore. La prima fase dello studio è dedicata alla definizione dei “limiti esterni”, prendendo in specifica considerazione le tematiche della giurisdizione di merito e della “riserva di amministrazione”. L’indagine proposta, nella parte iniziale, mira alla rottura di quel fenomeno di sostanziale assimilazione fra il giudizio di ottemperanza e la giurisdizione di merito in cui, quasi in una logica circolare, l’uno (l’ottemperanza) trae la sua giustificazione dall’altra (la giurisdizione di merito) e viceversa. Semplificando, si ritiene che il giudice dell’ottemperanza possa sostituirsi all’amministrazione solo perché si è in presenza di una fattispecie di giurisdizione di merito. Parimenti, la giurisdizione di merito è considerata elemento essenziale nel sistema delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, in quanto necessaria a giustificare le peculiarità del ricorso per l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di conformarsi al giudicato. Questa “rottura”, nel caso di specie, è funzionale a un’ autonoma caratterizzazione dei due istituti, allo scopo di verificare se – e in che modo – ciascuno di essi rappresenti un limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo. Il percorso di progressivo allontanamento fra la giurisdizione di merito e il giudizio di ottemperanza passa, preliminarmente, attraverso la riduzione del carattere polisenso e frammentario della nozione “giurisdizione di merito”, nell’intento di far convergere la «giurisdizione con cognizione estesa al merito» nella “giurisdizione piena” del giudice amministrativo. Se si assume la «giurisdizione con cognizione estesa al merito» quale locuzione più ampia per indicare le materie in cui il giudice amministrativo ha piena giurisdizione, il “merito” non è un ostacolo all’ampliamento dei contenuti della sentenza nella direzione indicata dall’art. 34, comma 1, lett.e). A questi aspetti sono dedicati i primi due capitoli del volume. Il primo descrive il modello astratto di giurisdizione di merito che emerge dal codice del processo amministrativo evidenziando gli elementi di tradizione e quelli, invece, di discontinuità rispetto al passato. Il testo elaborato dal legislatore del 2010, infatti, ripropone, almeno apparentemente, la duplice connotazione della giurisdizione di merito come “giurisdizione piena” e come “giudizio di opportunità”, ormai consolidata in dottrina e utile in passato a ricondurre il più possibile a unità le diverse materie in essa ricomprese. In questa parte dello studio l’indagine assume anche una prospettiva storica, nell’intento di descrivere, attraverso l’analisi diacronica delle principali norme sul processo amministrativo, le ragioni del peculiare affermarsi di un modello di giurisdizione di merito quale giudizio di opportunità fino alla sua sostanziale sovrapposizione con il giudizio di ottemperanza. È la ricostruzione storica, seppur compiuta nei suoi aspetti essenziali, che fa emergere come, in realtà, l’approdo del giudizio di opportunità altro non sia stato se non l’effetto delle sorti alterne delle materie attribuite alla giurisdizione di merito. Pur nella eterogeneità dei loro contenuti, le fattispecie in cui il giudice pronunciava anche nel merito si caratterizzavano per l’ampia possibilità per il collegio di conoscere la vicenda nella sua interezza, sia in fatto che in diritto, grazie alla attribuzione degli stessi mezzi istruttori del giudice civile, in ipotesi, fra l’altro, estranee da qualsiasi profilo di valutazione dell’interesse pubblico. Le peculiarità della giurisdizione di merito emergevano nelle dinamiche della quaestio facti, sulla scia di un ricercato parallelismo con la giurisdizione ordinaria. Sinteticamente, il giudizio di legittimità, al pari di quello in Cassazione, era un giudizio di pieno diritto; nella giurisdizione di merito, come nelle controversie avanti alla Corte di appello, si consentiva invece una nuova valutazione degli elementi di fatto, per giungere, eventualmente, alla modifica o alla riforma dell’atto gravato. L’ampliamento delle materie di giurisdizione esclusiva a scapito di quella di merito, la desuetudine di molte delle fattispecie rimanenti e l’ abolizione delle Giunte Provinciali amministrative hanno progressivamente determinato la prevalenza del modello del giudizio di ottemperanza e, con essa, l’arretramento dei caratteri tipici della giurisdizione piena. Il passaggio da una iniziale convergenza nella “giurisdizione piena” al dominio del “giudizio di opportunità” non ha un significato meramente classificatorio ma segna lo spostamento della valutazione del “ merito” dalla fase della cognizione a quella della decisione. Il giudizio di opportunità finisce così per descrivere l’attività valutativa che compie il giudice nell’adottare una determinazione sostitutiva di quella dell’amministrazione; la piena ricostruzione del fatto, invece, diventa meramente strumentale all’esercizio di tali poteri decisori. La giurisdizione di merito si è così presentata all’appuntamento con la codificazione quale “giudizio di opportunità”, in cui il giudice può sostituirsi all’amministrazione. Questo approdo del giudizio di opportunità è, però, piuttosto incerto e ambiguo, per la sua incapacità, da un lato, di identificare, unitariamente, le ipotesi di giurisdizione estesa al merito, dall’altro, di descrivere, realmente, le dinamiche dell’ottemperanza. La chiave per superare l’impasse del codice e individuare la presenza di sintomi di discontinuità rispetto alla tradizione, più che nelle norme sulla giurisdizione di merito, può essere trovata approfondendo il significato delle formule di sintesi - «giurisdizione piena» - «giudizio di opportunità» - cui si è fatto ricorso per una sua descrizione il più possibile unitaria. La «giurisdizione piena» si è arricchita di contenuti di maggior tutela rispetto alla capacità del giudice amministrativo di procedere a un’autonoma ricostruzione dei fatti, oltre la rappresentazione offertane dall’amministrazione. È questa, infatti, l’aspirazione di tutti i giudizi di legittimità e resa possibile dalla disciplina ormai indifferenziata dei mezzi di prova. In tale contesto, la giurisdizione di merito o scompare, riassorbita nel giudizio di legittimità, oppure necessita di una rinnovata chiave di lettura, qual è quella che si intende proporre, attraverso la lente della “nuova” giurisdizione piena. Il «giudizio di opportunità», a sua volta, non rappresenta una alternativa valida a contraddire la soluzione avanzata. Nella riflessione sulla giurisdizione di merito, prima della “contaminazione” del modello dell’ottemperanza, il giudizio di opportunità si inseriva, comunque, nelle dinamiche della questio facti. Poiché la piena conoscenza dei fatti si considerava un predicato esclusivo di un giudizio sul rapporto, per la tutela di diritti soggettivi, la medesima operazione, rapportata a un processo incentrato sulla legittimità dell’atto, varcava necessariamente il limite della legittimità, per collocarsi nella sfera del merito. Questa peculiare connotazione del giudizio di opportunità, quale categoria sotto la quale ricondurre la giurisdizione di merito, non solo è superata - in quanto insufficiente, se non superflua, a descrivere le dinamiche dell’accesso al fatto del giudice amministrativo – ma è altresì inidonea a sintetizzare quella attività di ponderazione e valutazione degli interessi pubblici che caratterizza lo schema decisorio dell’ottemperanza. Il percorso di reductio ad unum dei significati della giurisdizione di merito, approda così alla rottura di quel fenomeno di assimilazione con il giudizio di ottemperanza, a favore di una autonoma caratterizzazione dei due istituti. Ai fini specifici dello studio, alla separazione dei modelli consegue la possibilità di definire con maggiore chiarezza i limiti esterni all’ampliamento della sentenza di cognizione fino a ricomprendere misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato. Le dinamiche della giurisdizione di merito - sia come giurisdizione piena che come giudizio di opportunità - si risolvono nell’ambito dei poteri di cognizione del collegio. La giurisdizione di merito, così ricostruita, non è un limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza. Il giudizio di ottemperanza, invece, spinge la riflessione direttamente sui poteri di decisione del giudice e, ai fini specifici di questo studio, alla fissazione dei confini fra quanto possa ricomprendersi nel contenuto conformativo della sentenza e quanto, invece, nell’ottemperanza vera e propria. L’indagine si sposta, pertanto, sul tema della riserva di amministrazione e su quello, correlato, della sostituzione giurisdizionale, nella ricerca di una soluzione che riesca, al contempo, a giustificare l’esistenza di un ambito inaccessibile alla sentenza di cognizione e a fondare la capacità del giudice di “superarlo”, adottando una decisione sostitutiva. L’idea, in sintesi, è la necessaria esistenza di una riserva a favore dell’amministrazione che, solo avanti ad esigenze costituzionalmente rilevanti - quella del diritto a una tutela effettiva delle situazioni giuridiche soggettive - e nei limiti fissati dalla legge, consenta la surroga del giudice all’amministrazione. Il fondamento costituzionale è quello della effettività – legalità, intesa quale legalità – garanzia, in linea di continuità e non di rottura con il principio di divisione di poteri. La Costituzione, così come legittima l’affermazione della riserva, parimenti consente, se non esige, un suo superamento, a garanzia dell’effettività della tutela delle situazioni giuridiche soggettive violate. In questa prospettiva, la giurisdizione di merito appare inadeguata a descrivere lo schema teorico entro cui ricondurre fattispecie di sostituzione giudiziaria, fissate ex lege; il giudizio di ottemperanza, a sua volta, non necessita della giurisdizione di merito per legittimare la sua presenza nel sistema delle tutele nei confronti della pubblica amministrazione, perché è la Costituzione, nel combinato disposto degli articoli 24 e 113, a dimostrarne l’indispensabilità. La “riserva di amministrazione” e non la “giurisdizione di merito” rappresenta, più propriamente, il limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza del giudice amministrativo. La tenuta del modello astratto descritto nel primo capitolo è messa successivamente alla prova avanti alla disciplina, in concreto, delle materie in cui, in base alle previsioni del codice, il giudice amministrativo esercita giurisdizione con cognizione estesa al merito. L’esame del rito elettorale, delle controversie sui confini di enti territoriali, dei giudizi sul diniego di nulla osta cinematografico e sulle sanzioni pecuniarie conferma la praticabilità della soluzione proposta e la sua compatibilità con la giurisdizione «con cognizione estesa al merito». Il positivo riscontro circa l’incapacità della giurisdizione di merito a porsi quale limite all’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza, rischia, però, di essere smentito dal peculiare atteggiarsi della giurisdizione di merito per le sanzioni alternative alla declaratoria di inefficacia del contratto e, più in generale, dalla possibilità di ricostruire le decisioni sulle sorti del contratto quale ipotesi innominata di giurisdizione di merito. Nelle controversie sui contratti, infatti, potrebbe essere individuata una nuova e diversa connotazione della giurisdizione di merito, stante la valutazione affidata al giudice nel modulare gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione e, soprattutto, l’attribuzione all’autorità giudiziaria di una potestà sanzionatoria diretta, altrimenti riservata a una autorità amministrativa. Lo studio, in questa parte, si compone di una pars destruens e di una pars costruens che, conducono, rispettivamente, a negare la qualificazione delle controversie sui contratti quali fattispecie innominate di giurisdizione di merito, proponendone invece una rilettura attraverso la lente dell’art. 34, comma 1, lett. e). Proseguendo in questa pars costruens, la seconda parte dell’indagine punta invece a un’autonoma caratterizzazione del contenuto conformativo della sentenza. L’esame dei profili di diritto interno è preceduta da una breve digressione sulle esperienze di ordinamenti stranieri, in particolare quello francese e quello tedesco. Non a caso, si preferisce parlare di “influenze”, ad indicare la volontà di svolgere non un’indagine comparata delle diverse forme di esecuzione ma di verificare se, e in che modo, possano contribuire alla definizione del modello decisorio dell’art. 34, comma 1, lett.e). Le soluzioni del diritto straniero, interpretate attraverso le categorie del diritto interno, si ricollegano direttamente al contenuto conformativo della sentenza. Di più. Dal confronto con gli ordinamenti stranieri, in cui manca un rimedio come l’ottemperanza, non solo derivano elementi positivi a favore dell’ipotesi ricostruttiva proposta ma emerge altresì la capacità del processo italiano di garantire, de iure condito, un risultato di maggior tutela. La seconda parte è dedicata principalmente alla caratterizzazione del contenuto conformativo della sentenza. La riflessione, in quest’ultima fase, si muove in due direzioni distinte, seppur collegate. Sono definiti, innanzitutto, i presupposti per la pronuncia di una sentenza ex art. 34, comma 1, lett.e), con particolare attenzione alla relazione fra il principio della domanda e i poteri esercitabili d’ufficio dal giudice. Alla dinamica dei rapporti fra giudice, privati e amministrazione è infatti correlata la realizzazione dei risultati complessivamente attesi dall’indagine, al di là dei singoli contenuti della sentenza. L’obiettivo cui mira questo nuovo atteggiarsi dei poteri del giudice è la possibilità di introdurre un sistema di preclusioni processuali, corrispondente a quello del «dedotto e del deducibile», prevalentemente negato dalla dottrina, salvo alcune eccezioni e, al più, ammesso dalla giurisprudenza per le sole decisioni di rigetto. Questi profili sono esaminati attraverso l’ideale contrapposizione fra i risultati attesi e quanto separa dalla loro realizzazione, avanti a una disciplina processuale che, da un lato, consente l’ampliamento del contenuto conformativo della sentenza, ponendo positivamente le basi per il loro raggiungimento e, dall’altro, allontana ancora l’interprete da quegli obiettivi. Le ripetute censure della dottrina e della giurisprudenza alle scelte compiute dal legislatore nella disciplina dei poteri decisori del giudice – e, dunque, alla riduzione del catalogo delle azioni - hanno finito per mettere ulteriormente nell’ombra uno dei nodi tuttora problematici del giudizio amministrativo, qual è quello dei poteri di cognizione del giudice. È qui, di conseguenza, che si celano gli ostacoli che distanziano maggiormente dall’obiettivo. L’estensione del contenuto conformativo della sentenza riesce ad essere davvero garanzia di effettività della tutela, assicurando la stabilità del giudicato avanti al successivo esercizio dell’azione amministrativa, laddove le parti, in special modo quelle private, siano realmente messe in condizione di esercitare il contraddittorio su tutti gli elementi della vicenda sub iudice e di scegliere consapevolmente quanto dedurre a sostegno delle proprie ragioni. Più in particolare, la reale capacità della sentenza ex art. 34, comm 1 lett. e) di assicurare una risposta di giustizia efficace è ancora fortemente condizionata dal concreto atteggiarsi di quell’equilibrio fra il principio dispositivo e metodo acquisitivo che da sempre caratterizza il processo amministrativo, anche quello disciplinato dal codice, e che è oggi chiamato a confrontarsi anche con il principio di non contestazione. Alcuni degli elementi di criticità affrontati in questa prima parte caratterizzano altresì l’esame specifico delle prime applicazioni giurisprudenziali dell’art. 34, comma 1, lett. e) del codice. Sono stati principalmente i giudici a valorizzare la facoltà concessagli dal codice di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato per giustificare decisioni dai contenuti di adempimento e per avallare la tendenza a distaccarsi dai modelli tradizionali della tutela di annullamento, avanti a censure di incompetenza o di violazione di legge. Lo studio si sofferma, di conseguenza, sui modelli di tutela ricavabili da tale giurisprudenza, analizzandone gli aspetti positivi e quelli, invece, di maggiore perplessità. La descrizione si conclude con l’esame delle misure aventi funzione tipicamente monitoria, volte a sollecitare la pronta ottemperanza alla pronuncia. Simili prescrizioni sono idealmente divise in due categorie. All’esame di una prima tipologia di misure tipiche, in quanto contemplate espressamente dal legislatore (fissazione di un termine per adempiere, nomina di un commissario ad acta), si affiancano alcune considerazioni sulla possibilità di un anticipo di astreintes nella sentenza di cognizione, seguendo un modello non più esclusivo dei processi stranieri ma anche quello italiano
2012
9788863423655
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11391/1011682
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