Cos’è che dà senso alla nostra vita? E’ intorno a tale questione che ruotano le riflessioni proposte nel breve libro. Si tratta di una sorta di itinerario tra filosofia, letteratura e religione, in cui ricopre un ruolo centrale il dialogo con autori come Arendt, Heidegger, Nietzsche, Platone, Pascal, Camus, Leopardi, Hillesum, Freud, Bataille, Merleau-Ponty e con alcuni testi della Bibbia (Qoèlet e Vangeli). La cornice all’interno della quale si articola la riflessione è data dalla correlazione di visibile e invisibile. La nostra esistenza si dispiega tra la luce e il buio, che possono assumere connotazioni diverse: ad esempio, il conoscibile e il mistero, le forme del mondo visibile e l’informe dell’unione simbiotica con l’alterità. Il cuore concettuale del libro è che il senso va distinto dallo scopo e dal significato, ossia da concetti e dimensioni a cui viene spesso equiparato: la vita può avere uno o più scopi, può avere un significato, ma non un senso. Il senso non è qualcosa che possa essere dato alla vita e neanche scelto o costruito dal soggetto: esso, infatti, si dà nell’abbandono. L’esperienza del senso non dipende dalla visione che si ha della vita, ma dal modo in cui si sente la vita: il senso ha un carattere essenzialmente estetico, ha cioè a che fare con la percezione (aísthesis) della bellezza. Se la vita di una persona ha uno scopo quando è volta alla realizzazione di qualcosa e un significato quando appartiene a un mondo, essa ha un senso quando è bella. La bellezza della vita coincide qui con la percezione che essa merita di essere vissuta, che è buona, amabile, nonostante la morte e la sofferenza. La percezione del senso, in quanto percezione della bellezza della vita, è ek-stasis, ossia è uno stato in cui si è fuori di sé. Quella del senso appare una dimensione connessa al desiderio della perdita di sé nell’abbandono. La dimensione del significato ha un carattere simbolico-relazionale, quella dello scopo teleologico, mentre quella del senso estetico. L’interrogazione sul senso mette in gioco il nostro rapporto con le dimensioni visibili e con quelle invisibili dell’esistenza, oltre che con la paradossale compresenza in ciascuno di noi della tendenza all’affermazione di sé e della pulsione alla perdita di sé nell’unione simbiotica con l’altro (cupio dissolvi). In ultima istanza, tale interrogazione investe la questione del potere: la percezione del senso si dà nell’abbandono, in uno spazio che resta inaccessibile ad ogni volontà di dominio volta a governare la vita nelle sue pieghe più intime.
Cupio dissolvi. Senso della vita e abbandono
SORRENTINO, Vincenzo
2015
Abstract
Cos’è che dà senso alla nostra vita? E’ intorno a tale questione che ruotano le riflessioni proposte nel breve libro. Si tratta di una sorta di itinerario tra filosofia, letteratura e religione, in cui ricopre un ruolo centrale il dialogo con autori come Arendt, Heidegger, Nietzsche, Platone, Pascal, Camus, Leopardi, Hillesum, Freud, Bataille, Merleau-Ponty e con alcuni testi della Bibbia (Qoèlet e Vangeli). La cornice all’interno della quale si articola la riflessione è data dalla correlazione di visibile e invisibile. La nostra esistenza si dispiega tra la luce e il buio, che possono assumere connotazioni diverse: ad esempio, il conoscibile e il mistero, le forme del mondo visibile e l’informe dell’unione simbiotica con l’alterità. Il cuore concettuale del libro è che il senso va distinto dallo scopo e dal significato, ossia da concetti e dimensioni a cui viene spesso equiparato: la vita può avere uno o più scopi, può avere un significato, ma non un senso. Il senso non è qualcosa che possa essere dato alla vita e neanche scelto o costruito dal soggetto: esso, infatti, si dà nell’abbandono. L’esperienza del senso non dipende dalla visione che si ha della vita, ma dal modo in cui si sente la vita: il senso ha un carattere essenzialmente estetico, ha cioè a che fare con la percezione (aísthesis) della bellezza. Se la vita di una persona ha uno scopo quando è volta alla realizzazione di qualcosa e un significato quando appartiene a un mondo, essa ha un senso quando è bella. La bellezza della vita coincide qui con la percezione che essa merita di essere vissuta, che è buona, amabile, nonostante la morte e la sofferenza. La percezione del senso, in quanto percezione della bellezza della vita, è ek-stasis, ossia è uno stato in cui si è fuori di sé. Quella del senso appare una dimensione connessa al desiderio della perdita di sé nell’abbandono. La dimensione del significato ha un carattere simbolico-relazionale, quella dello scopo teleologico, mentre quella del senso estetico. L’interrogazione sul senso mette in gioco il nostro rapporto con le dimensioni visibili e con quelle invisibili dell’esistenza, oltre che con la paradossale compresenza in ciascuno di noi della tendenza all’affermazione di sé e della pulsione alla perdita di sé nell’unione simbiotica con l’altro (cupio dissolvi). In ultima istanza, tale interrogazione investe la questione del potere: la percezione del senso si dà nell’abbandono, in uno spazio che resta inaccessibile ad ogni volontà di dominio volta a governare la vita nelle sue pieghe più intime.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.