La poetica della melanconia, uno degli ingredienti essenziali della soggettività romantica, non è da intendersi come passione pre-concettuale, ma piuttosto come una relazione quasi cognitiva con il mondo, che si manifesta tramite specifiche modellizzazioni retoriche ed estetico-formali. Se di melanconia si parlava già nei "Problemata physica" attribuiti ad Aristotele, dall'epoca barocca in avanti il mondo su cui si posa lo sguardo melanconico non è più quello antico in cui la corrispondenza fra realtà e linguaggio non era messa in discussione. Quello moderno è un mondo di frammenti, di rovine, di corrispondenze plurime e incerte, una dimensione sospesa in cui ogni cosa può rimandare a qualsiasi altra: è il mondo dell'allegoria. Il nesso fra melanconia e allegoria è evidente nella poesia tardo-romantica, che ricapitola la tradizione antica, medievale, rinascimentale e barocca dell'humor nero e la cristallizza in una serie di immagini, figure, frammenti, emblemi. Il poeta che meglio esemplifica questo processo è John Keats, ad esempio in "La Belle Dame sans Merci", in cui la consapevolezza dolorosa della morte è espressa in codice nella vicenda del cavaliere medievale, sedotto e abbandonato dalla Dama, e nell’ipertrofico affollarsi di elementi descrittivi. Un accumulo ancora più cospicuo di oggetti lugubri o addirittura raccapriccianti, intesi come allusivi all’umor nero, è presente in "Ode on Melancholy", che proprio attraverso l’uso e le caratteristiche di questi emblemi rivela l’influenza della monumentale "Anatomy" di Burton e del poemetto di Thomas Warton "The Pleasures of Melancholy". Il poemetto, scritto alla fine del ‘700, manifesto del gotico romantico, descrive la malinconia tramite un lunghissimo elenco di emblemi naturali e sovrannaturali: grotte, picchi, baratri, nebbie e bufere, castelli e abbazie in rovina, chiari di luna, tombe, spettri, gufi e pipistrelli, insomma tutto il lugubre corteggio infernale tipico della melanconia moderna, allestito nel disordine proprio della messinscena allegorica. Lo scenario tetro e sublime di Warton viene distillato da Keats nelle tre strofe della sua ode, in cui non solo la coreografia delle immagini è molto più serrata e complessa di quella di Warton, ma l’armamentario gotico viene rovesciato, citato ma sostituito da una geografia mitologica che favorisce un’intensa percezione della bellezza e la consapevolezza della sua precarietà. Il tema della caducità della bellezza si ripresenta in "Ode to a Nightingale" in un contesto psicologico-narrativo molto simile a quello dell’ode alla malinconia: sommerso dalle consuete immagini del Lete, del sonno, delle piante velenose, del cuore addolorato, il poeta torna a respingerle, offrendosi al piacere dell’ascolto dell’usignolo. Il buio bosco di faggi da cui proviene il canto è il luogo melodioso in cui ancora una volta coesistono bellezza e malinconia, estasi e morte. Nel giudizio negativo che alcuni vittoriani danno della loro epoca, è centrale il rifiuto della malinconia tardo-romantica, percepita come pericolosamente femminea, infantile e paralizzante. L’urgenza di questo rifiuto è in realtà sintomatica della pervasività patologica della malinconia nella letteratura vittoriana, che però non sembra aver prodotto capolavori. L’unica opera rilevante, da questo punto di vista, è "The City of the Dreadful Night", un lungo poema allegorico di J. Thomson, in cui si rappresenta il lato oscuro della sofferenza, le ossessioni, il delirio provocate dal dolore. Un paesaggio tetro, tragico, spettrale, ospita gli emblemi della melanconia, che è qui appunto diventata dolore sordo, la malattia che oggi chiamiamo depressione: la perdita del senso della vita. Curiosamente, alcuni dei mitemi di questo poema ricompaiono nell’atmosfera molto più lieve di una famosa fiaba di Oscar Wilde, "The Happy Prince", in cui la statua dorata del Principe, una specie di personificazione del dolore, funge da genius loci di un mondo dolente.

Paesaggi della melanconia nella poesia romantica.

MONTESPERELLI, Francesca
2017

Abstract

La poetica della melanconia, uno degli ingredienti essenziali della soggettività romantica, non è da intendersi come passione pre-concettuale, ma piuttosto come una relazione quasi cognitiva con il mondo, che si manifesta tramite specifiche modellizzazioni retoriche ed estetico-formali. Se di melanconia si parlava già nei "Problemata physica" attribuiti ad Aristotele, dall'epoca barocca in avanti il mondo su cui si posa lo sguardo melanconico non è più quello antico in cui la corrispondenza fra realtà e linguaggio non era messa in discussione. Quello moderno è un mondo di frammenti, di rovine, di corrispondenze plurime e incerte, una dimensione sospesa in cui ogni cosa può rimandare a qualsiasi altra: è il mondo dell'allegoria. Il nesso fra melanconia e allegoria è evidente nella poesia tardo-romantica, che ricapitola la tradizione antica, medievale, rinascimentale e barocca dell'humor nero e la cristallizza in una serie di immagini, figure, frammenti, emblemi. Il poeta che meglio esemplifica questo processo è John Keats, ad esempio in "La Belle Dame sans Merci", in cui la consapevolezza dolorosa della morte è espressa in codice nella vicenda del cavaliere medievale, sedotto e abbandonato dalla Dama, e nell’ipertrofico affollarsi di elementi descrittivi. Un accumulo ancora più cospicuo di oggetti lugubri o addirittura raccapriccianti, intesi come allusivi all’umor nero, è presente in "Ode on Melancholy", che proprio attraverso l’uso e le caratteristiche di questi emblemi rivela l’influenza della monumentale "Anatomy" di Burton e del poemetto di Thomas Warton "The Pleasures of Melancholy". Il poemetto, scritto alla fine del ‘700, manifesto del gotico romantico, descrive la malinconia tramite un lunghissimo elenco di emblemi naturali e sovrannaturali: grotte, picchi, baratri, nebbie e bufere, castelli e abbazie in rovina, chiari di luna, tombe, spettri, gufi e pipistrelli, insomma tutto il lugubre corteggio infernale tipico della melanconia moderna, allestito nel disordine proprio della messinscena allegorica. Lo scenario tetro e sublime di Warton viene distillato da Keats nelle tre strofe della sua ode, in cui non solo la coreografia delle immagini è molto più serrata e complessa di quella di Warton, ma l’armamentario gotico viene rovesciato, citato ma sostituito da una geografia mitologica che favorisce un’intensa percezione della bellezza e la consapevolezza della sua precarietà. Il tema della caducità della bellezza si ripresenta in "Ode to a Nightingale" in un contesto psicologico-narrativo molto simile a quello dell’ode alla malinconia: sommerso dalle consuete immagini del Lete, del sonno, delle piante velenose, del cuore addolorato, il poeta torna a respingerle, offrendosi al piacere dell’ascolto dell’usignolo. Il buio bosco di faggi da cui proviene il canto è il luogo melodioso in cui ancora una volta coesistono bellezza e malinconia, estasi e morte. Nel giudizio negativo che alcuni vittoriani danno della loro epoca, è centrale il rifiuto della malinconia tardo-romantica, percepita come pericolosamente femminea, infantile e paralizzante. L’urgenza di questo rifiuto è in realtà sintomatica della pervasività patologica della malinconia nella letteratura vittoriana, che però non sembra aver prodotto capolavori. L’unica opera rilevante, da questo punto di vista, è "The City of the Dreadful Night", un lungo poema allegorico di J. Thomson, in cui si rappresenta il lato oscuro della sofferenza, le ossessioni, il delirio provocate dal dolore. Un paesaggio tetro, tragico, spettrale, ospita gli emblemi della melanconia, che è qui appunto diventata dolore sordo, la malattia che oggi chiamiamo depressione: la perdita del senso della vita. Curiosamente, alcuni dei mitemi di questo poema ricompaiono nell’atmosfera molto più lieve di una famosa fiaba di Oscar Wilde, "The Happy Prince", in cui la statua dorata del Principe, una specie di personificazione del dolore, funge da genius loci di un mondo dolente.
2017
9788897738947
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11391/1411552
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