Questo contributo si articola in tre parti, che cooperano a chiarire alcuni aspetti del pensiero e del comportamento di Ambrogio in relazione alla proprietà privata, che dalla metà dell’Ottocento sono stati oggetto d’interpretazioni contrastanti. Nella prima, passi del De officiis e del De Nabuthae historia sono analizzati per comprendere quale concezione Ambrogio avesse della proprietà privata e della ricchezza; nella seconda, è affrontato il problema dell’identità del padre, prefetto al pretorio, e quello della cessione dei suoi beni alla Chiesa di Milano; nella terza è esaminata la legislazione imperiale, che imponeva ai sacerdoti di origine curiale di cedere i propri beni prima di essere ordinati, e la reazione che essa provocò nel vescovo di Milano. In sintesi questi sono i risultati dell’indagine: I. La concezione ambrosiana della Natura madre feconda, che dà a tutti senza distinzione e crea diritti comuni, mentre l’usurpatio ingenera diritti privati, è frutto della rielaborazione cristiana del mito classico dell’età dell’oro. Essa presuppone l’accettazione della proprietà privata e una visione positiva della ricchezza, che è strumento di virtù per i buoni, se la usino per azioni di misericordia. La misericordia, superiore alla giustizia umana, è per il vescovo officium perfectum, perché nelle opere di carità anche il dives imita il Padre, che è perfetto. II. Nell’elaborare tale rapporto tra proprietà privata, ricchezza e misericordia, Ambrogio molto deve alla sua estrazione aristocratica, essendo figlio di un uomo (forse Uranius Ambrosius) che per capacità amministrative, solida conoscenza del diritto e per la propria cultura retorico-filosofica fu scelto dal principe per rivestire la prefettura al pretorio. Era quella una carica amministrativa che, dalla riforma di Costantino, garantiva anche a uomini di nascita non nobile l’ingresso al senato con il rango di clarissimus e la possibilità di accumulare un notevole patrimonio. Probabilmente il padre di Ambrogio non fu implicato in alcuna sciagurata vicenda politica, perché Ambrogio e i fratelli conservarono, dopo la sua morte, un patrimonio di notevole entità. Essendo l’eredità indivisa al momento dell’ordinazione di Ambrogio, il vescovo poté utilizzarne le rendite per la Chiesa e i poveri, grazie alla generosità del fratello Satiro, morto qualche anno dopo, e della sorella Marcellina, la quale utilizzò le rendite del patrimonio comune per vivere come asceta con altre virgines consacrate e con sua madre vedova nella domus romana. A Marcellina il vescovo lasciò l’usufrutto di tale patrimonio, quando lo donò per via testamentaria alla Chiesa di Milano alla fine della vita. III. Ambrogio, infatti, era convinto che tutti i sacerdoti dovessero mantenere i propri beni se ordinati: non solo quelli di rango senatorio, quale egli era, ma pure quanti di rango curiale erano obbligati dalla legge a lasciarli ai propri parenti o al consiglio cittadino prima di ricevere gli ordini. Egli, dunque, nel 388, attirò l’attenzione di Teodosio I su tale questione fiscale, che suscitava grande preoccupazione nei vescovi dell’Italia settentrionale, e riuscì a ottenere una sanatoria per evitare che sacerdoti ordinati da molto tempo, poiché avevano conservato il loro patrimonio, fossero richiamati nei consigli municipali per svolgervi quelle liturgie da cui erano stati esonerati con l’ingresso nella Chiesa.

‘Praesul et possessor’: Ambrogio e la proprietà privata

LIZZI, Rita
2017

Abstract

Questo contributo si articola in tre parti, che cooperano a chiarire alcuni aspetti del pensiero e del comportamento di Ambrogio in relazione alla proprietà privata, che dalla metà dell’Ottocento sono stati oggetto d’interpretazioni contrastanti. Nella prima, passi del De officiis e del De Nabuthae historia sono analizzati per comprendere quale concezione Ambrogio avesse della proprietà privata e della ricchezza; nella seconda, è affrontato il problema dell’identità del padre, prefetto al pretorio, e quello della cessione dei suoi beni alla Chiesa di Milano; nella terza è esaminata la legislazione imperiale, che imponeva ai sacerdoti di origine curiale di cedere i propri beni prima di essere ordinati, e la reazione che essa provocò nel vescovo di Milano. In sintesi questi sono i risultati dell’indagine: I. La concezione ambrosiana della Natura madre feconda, che dà a tutti senza distinzione e crea diritti comuni, mentre l’usurpatio ingenera diritti privati, è frutto della rielaborazione cristiana del mito classico dell’età dell’oro. Essa presuppone l’accettazione della proprietà privata e una visione positiva della ricchezza, che è strumento di virtù per i buoni, se la usino per azioni di misericordia. La misericordia, superiore alla giustizia umana, è per il vescovo officium perfectum, perché nelle opere di carità anche il dives imita il Padre, che è perfetto. II. Nell’elaborare tale rapporto tra proprietà privata, ricchezza e misericordia, Ambrogio molto deve alla sua estrazione aristocratica, essendo figlio di un uomo (forse Uranius Ambrosius) che per capacità amministrative, solida conoscenza del diritto e per la propria cultura retorico-filosofica fu scelto dal principe per rivestire la prefettura al pretorio. Era quella una carica amministrativa che, dalla riforma di Costantino, garantiva anche a uomini di nascita non nobile l’ingresso al senato con il rango di clarissimus e la possibilità di accumulare un notevole patrimonio. Probabilmente il padre di Ambrogio non fu implicato in alcuna sciagurata vicenda politica, perché Ambrogio e i fratelli conservarono, dopo la sua morte, un patrimonio di notevole entità. Essendo l’eredità indivisa al momento dell’ordinazione di Ambrogio, il vescovo poté utilizzarne le rendite per la Chiesa e i poveri, grazie alla generosità del fratello Satiro, morto qualche anno dopo, e della sorella Marcellina, la quale utilizzò le rendite del patrimonio comune per vivere come asceta con altre virgines consacrate e con sua madre vedova nella domus romana. A Marcellina il vescovo lasciò l’usufrutto di tale patrimonio, quando lo donò per via testamentaria alla Chiesa di Milano alla fine della vita. III. Ambrogio, infatti, era convinto che tutti i sacerdoti dovessero mantenere i propri beni se ordinati: non solo quelli di rango senatorio, quale egli era, ma pure quanti di rango curiale erano obbligati dalla legge a lasciarli ai propri parenti o al consiglio cittadino prima di ricevere gli ordini. Egli, dunque, nel 388, attirò l’attenzione di Teodosio I su tale questione fiscale, che suscitava grande preoccupazione nei vescovi dell’Italia settentrionale, e riuscì a ottenere una sanatoria per evitare che sacerdoti ordinati da molto tempo, poiché avevano conservato il loro patrimonio, fossero richiamati nei consigli municipali per svolgervi quelle liturgie da cui erano stati esonerati con l’ingresso nella Chiesa.
2017
978-88-6897-073-4
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11391/1416626
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