Il movimento risorgimentale romeno ebbe basi laiche. La stessa definizione di identità nazionale non si fondava sulla condivisione da parte del popolo romeno della fede ortodossa. Nonostante ciò gli esponenti della chiesa non si dimostrarono ostili verso le rivendicazioni dei patrioti romeni e ne appoggiarono la causa, talora partecipando anche attivamente alle lotte risorgimentali. Dopo la nascita del Principato di Romania tuttavia il rapporto con le istituzioni si fece più complesso. La formazione laica e liberale della classe dirigente si riflesse sulle iniziative adottate dai governi, improntate ad una politica di laicizzazione, subordinazione della chiesa allo stato e “nazionalizzazione”. Le prime due linee prevalsero durante il principato di Alexandru Ioan Cuza. La creazione di un moderno stato di diritto impose in primo luogo la subordinazione all’autorità dello stato di materie che in precedenza erano di competenza ecclesiastica, come nel caso dell’istruzione pubblica o del diritto privato (matrimoni, anagrafe, ecc.). I governi romeni però si spinsero oltre: vedendo nella chiesa un’organizzazione potenzialmente concorrente a quella statale, essi si avocarono talora il diritto ad intervenire anche nelle sue questioni interne, come la nomina dei vescovi. I contrasti che inevitabilmente emersero tra stato e chiesa non portarono però allo scontro tra le due istituzioni, che invece si trovarono l’una a fianco dell’altra nell’intraprendere la terza delle linee politiche seguite dal governo in materia religiosa: quella della “nazionalizzazione”, ovvero dell’autonomia da Costantinopoli. Qui il desiderio dello stato di recidere i residui vincoli con l’impero ottomano convergevano con la volontà della chiesa di ottenere il riconoscimento della propria autonomia dal Patriarcato di Costantinopoli. Così la chiesa non si oppose alle limitazioni imposte dallo stato nei confronti dei cosiddetti monasteri dedicati (ovvero quelli sottoposti all’autorità diretta di Costantinopoli) e ovviamente appoggiò la richiesta fatta dalle autorità romene già nel 1872 dell’autocefalia per la chiesa romena. La ritrovata sintonia con i leader politici si espresse nel pieno sostegno dato dalla chiesa alla lotta per la piena indipendenza del 1877 e che portò al riconoscimento concesso alla Romania dal Congresso di Berlino dell’anno successivo. L’indipendenza fu seguita poco tempo dopo dal riconoscimento dell’autocefalia (1885) e i rapporti tra le due istituzioni si stabilizzarono fino alla prima guerra mondiale. Con la nascita della Grande Romania la chiesa romena si dovette confrontare con un paese profondamente cambiato, del quale facevano parte consistenti minoranze cattoliche (ungheresi) e protestanti (sassoni) oltre agli ebrei, già presenti prima della guerra. Nel 1925 la chiesa ebbe comunque un grande riconoscimento quando al metropolita di Bucarest fu concesso il rango di Patriarca di Romania. Negli anni Venti il problema di maggior rilevanza che si pose nel rapporto tra stato e chiesa fu quello del rapporto con la componente unita, che riguardava la stessa popolazione romena e non altre minoranze. La presenza del clero unita poteva effettivamente minare la tesi della chiesa ortodossa dell’identificazione tra etnia romena e religione ortodossa e dell’ortodossia come custode dell’identità romena nei secoli di sottomissione agli stranieri, tanto più che la chiesa greco-cattolica di Transilvania aveva una grande tradizione culturale ed era stata la prima a rivendicare l’esistenza di una identità nazionale romena alla fine del Settecento. Questo fu il centro dei dibattiti che si ebbero in materia religiosa e uno dei temi maggiormente presenti nella discussione della legge sui culti del 1928. Negli anni Trenta però la questione passò in secondo piano. Con l’ascesa dei movimenti di estrema destra in tutta Europa e l’affermazione in Romania di movimenti antiliberali a forte connotazione antisemita, la chiesa fu spinta a prendere posizione. Il suo atteggiamento fu inizialmente di condanna nei confronti dei casi di antisemitismo che si registravano nel paese, anche se non di rado questi erano stigmatizzati come episodi circoscritti. L’atteggiamento prevalente nei confronti della minoranza ebraica restava di apertura e disponibilità all’accoglienza a condizione della conversione. Fino alla metà degli anni Trenta infatti non si registrò alcuna indulgenza da parte della chiesa verso i movimenti estremisti e antisemiti che erano nel frattempo comparsi nel paese, primo fra tutti la Guardia di Ferro. Questo vale in particolare per le alte gerarchie ecclesiastiche, mentre una parte del clero di rango inferiore (soprattutto alcuni preti di campagna) si lasciò affascinare dal movimento di Codreanu. Un momento di svolta si ebbe però nel 1937, quando lo stesso Patriarca di Romania Miron Cristea, in una dichiarazione riportata dall’Israelite World Alliance, lanciò durissime accuse contro la minoranza ebraica in Romania, accusata di aver monopolizzato le posizioni di potere economico e politico a discapito della maggioranza romena, sostenendo che ciò rappresentasse una reale minaccia all’integrità del paese. Lo stesso patriarca assunse poi l’incarico di Primo Ministro e continuò a pronunciare feroci accuse contro gli ebrei, facendosi anche promotore di leggi restrittive nei loro confronti e preparando così il terreno
Chiesa ortodossa romena come chiesa dominante. Dal liberalismo laico all'ortodossismo.
COSTANTINI, EMANUELA
2006
Abstract
Il movimento risorgimentale romeno ebbe basi laiche. La stessa definizione di identità nazionale non si fondava sulla condivisione da parte del popolo romeno della fede ortodossa. Nonostante ciò gli esponenti della chiesa non si dimostrarono ostili verso le rivendicazioni dei patrioti romeni e ne appoggiarono la causa, talora partecipando anche attivamente alle lotte risorgimentali. Dopo la nascita del Principato di Romania tuttavia il rapporto con le istituzioni si fece più complesso. La formazione laica e liberale della classe dirigente si riflesse sulle iniziative adottate dai governi, improntate ad una politica di laicizzazione, subordinazione della chiesa allo stato e “nazionalizzazione”. Le prime due linee prevalsero durante il principato di Alexandru Ioan Cuza. La creazione di un moderno stato di diritto impose in primo luogo la subordinazione all’autorità dello stato di materie che in precedenza erano di competenza ecclesiastica, come nel caso dell’istruzione pubblica o del diritto privato (matrimoni, anagrafe, ecc.). I governi romeni però si spinsero oltre: vedendo nella chiesa un’organizzazione potenzialmente concorrente a quella statale, essi si avocarono talora il diritto ad intervenire anche nelle sue questioni interne, come la nomina dei vescovi. I contrasti che inevitabilmente emersero tra stato e chiesa non portarono però allo scontro tra le due istituzioni, che invece si trovarono l’una a fianco dell’altra nell’intraprendere la terza delle linee politiche seguite dal governo in materia religiosa: quella della “nazionalizzazione”, ovvero dell’autonomia da Costantinopoli. Qui il desiderio dello stato di recidere i residui vincoli con l’impero ottomano convergevano con la volontà della chiesa di ottenere il riconoscimento della propria autonomia dal Patriarcato di Costantinopoli. Così la chiesa non si oppose alle limitazioni imposte dallo stato nei confronti dei cosiddetti monasteri dedicati (ovvero quelli sottoposti all’autorità diretta di Costantinopoli) e ovviamente appoggiò la richiesta fatta dalle autorità romene già nel 1872 dell’autocefalia per la chiesa romena. La ritrovata sintonia con i leader politici si espresse nel pieno sostegno dato dalla chiesa alla lotta per la piena indipendenza del 1877 e che portò al riconoscimento concesso alla Romania dal Congresso di Berlino dell’anno successivo. L’indipendenza fu seguita poco tempo dopo dal riconoscimento dell’autocefalia (1885) e i rapporti tra le due istituzioni si stabilizzarono fino alla prima guerra mondiale. Con la nascita della Grande Romania la chiesa romena si dovette confrontare con un paese profondamente cambiato, del quale facevano parte consistenti minoranze cattoliche (ungheresi) e protestanti (sassoni) oltre agli ebrei, già presenti prima della guerra. Nel 1925 la chiesa ebbe comunque un grande riconoscimento quando al metropolita di Bucarest fu concesso il rango di Patriarca di Romania. Negli anni Venti il problema di maggior rilevanza che si pose nel rapporto tra stato e chiesa fu quello del rapporto con la componente unita, che riguardava la stessa popolazione romena e non altre minoranze. La presenza del clero unita poteva effettivamente minare la tesi della chiesa ortodossa dell’identificazione tra etnia romena e religione ortodossa e dell’ortodossia come custode dell’identità romena nei secoli di sottomissione agli stranieri, tanto più che la chiesa greco-cattolica di Transilvania aveva una grande tradizione culturale ed era stata la prima a rivendicare l’esistenza di una identità nazionale romena alla fine del Settecento. Questo fu il centro dei dibattiti che si ebbero in materia religiosa e uno dei temi maggiormente presenti nella discussione della legge sui culti del 1928. Negli anni Trenta però la questione passò in secondo piano. Con l’ascesa dei movimenti di estrema destra in tutta Europa e l’affermazione in Romania di movimenti antiliberali a forte connotazione antisemita, la chiesa fu spinta a prendere posizione. Il suo atteggiamento fu inizialmente di condanna nei confronti dei casi di antisemitismo che si registravano nel paese, anche se non di rado questi erano stigmatizzati come episodi circoscritti. L’atteggiamento prevalente nei confronti della minoranza ebraica restava di apertura e disponibilità all’accoglienza a condizione della conversione. Fino alla metà degli anni Trenta infatti non si registrò alcuna indulgenza da parte della chiesa verso i movimenti estremisti e antisemiti che erano nel frattempo comparsi nel paese, primo fra tutti la Guardia di Ferro. Questo vale in particolare per le alte gerarchie ecclesiastiche, mentre una parte del clero di rango inferiore (soprattutto alcuni preti di campagna) si lasciò affascinare dal movimento di Codreanu. Un momento di svolta si ebbe però nel 1937, quando lo stesso Patriarca di Romania Miron Cristea, in una dichiarazione riportata dall’Israelite World Alliance, lanciò durissime accuse contro la minoranza ebraica in Romania, accusata di aver monopolizzato le posizioni di potere economico e politico a discapito della maggioranza romena, sostenendo che ciò rappresentasse una reale minaccia all’integrità del paese. Lo stesso patriarca assunse poi l’incarico di Primo Ministro e continuò a pronunciare feroci accuse contro gli ebrei, facendosi anche promotore di leggi restrittive nei loro confronti e preparando così il terrenoI documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.