Il tema dell’essere umani torna prepotentemente all’attenzione dopo un lungo periodo nel quale lo si era ritenuto ormai privo di senso. Dalla cultura pop all’arte, dalla scienza alla filosofia alla narrativa, le riflessioni e gli stimoli in proposito sono numerosi, disordinati, contraddittori, segnale di un bisogno di comprensione che non trova sollievo e resta confinato in una scatola ormai vecchia. Questo libro prova a tracciare un cammino dell’umano out of the box, rinunciando a secoli – se non millenni – di convinzioni rassicuranti per portare alla consapevolezza la splendida difficoltà creativa dell’umanità, che sta diventando se stessa da milioni di anni, sempre più raffinata e adatta a esser parte di un processo universale, ma che negli ultimi millenni sembra aver smarrito la strada, fino ad affacciarsi sulla sua stessa autodistruzione. L’umano non è qualcosa di dato, di sacro e di immutabile: la versione che ne stiamo offrendo oggi, come mostrano sempre meglio paleoantropologia e paleoarcheologia, è solo una delle tante possibili, parziale, megalomane e pericolosa, anche se ha buone ragioni per esser così; ragioni che oggi avremmo gli strumenti per comprendere e correggere, se ne avessimo davvero il desiderio. Il libro si divide in due parti: “Temi dell’umano” e “Variazioni e fughe”. Nella prima – tre capitoli snelli – si enunciano tre piste di riflessione che verranno poi seguite nei loro andirivieni spaesanti nei quattro capitoli della seconda parte, che riguardano distorsioni invisibili del campo percettivo e cognitivo che ne adattano le configurazioni a se stesse così da restar lì tranquille, buchi neri della conoscenza che sarebbero anche osservabili, se lo volessimo davvero. Nel primo capitolo – “Della profondità del tempo” – si tratta della scoperta della scala temporale degli avvenimenti che riguardano noi come specie e il mondo e ci si interroga sulla sua effettiva comprensione. Uno dei primi motivi per questa scelta d’apertura è che in questi anni si fa un gran parlare dei salti evolutivi resi possibili se non già realizzati grazie alla tecnologia, come se i tempi dell’evoluzione fossero quelli dei nostri manager e dei nostri responsabili della comunicazione: come vedremo, questo della scala e del ritmo è un problema serio e osservandolo con pacatezza si registrano quelle più o meno piccole discrepanze che rendono visibili le distorsioni appena menzionate. Nel secondo capitolo – “Dell’essere figli di un dio” – si espone quella che chiamo la concezione creaturale dell’umano, un altro esempio di sapere teoricamente rinnegato e praticamente applicato oltre ogni limite di misura e giustizia. Secondo questa rappresentazione, l’umano è solo parzialmente di questo mondo, essendo il frutto di un intervento divino – creazione, punizione, sghiribizzo – che ha unito in un equilibrio instabile una componente materiale, il corpo, e una spirituale, prossima al divino e dai diversi nomi. La cultura occidentale è coerente con questa impostazione sin da Platone, col mito dell’Auriga, passando per le Scritture e giungendo, in tempi più recenti a Cartesio e oggi alla dicotomia hardware/software, ma è oggi difficile armonizzare questa rappresentazione con le pretese convinzioni sull’evoluzione e sulla comune appartenenza al vivente: l’osservazione dello stato delle cose dà la netta impressione che sia essa a orientare la gran parte delle scelte e delle politiche, sebbene venga di norma smentita in ogni assise. Nel terzo capitolo – “Dell’andar camminando per il mondo” – si lasciano da parte le certezze indiscusse e inconsapevoli e si presentano dati e teorie provenienti dalla comunità scientifica, ai quali viene tuttavia fatta poca attenzione e che, per le regole correnti sul processo di produzione del sapere, di rado vengono inseriti in un quadro coerente di riferimento. Ciò che emerge dall’escursione transdisciplinare è comunque che vi è oggi un diffuso consenso sul far risalire l’origine dell’umanità non alla ragione calcolante cartesiana, ma alla conquista della stazione eretta e alla connessa facoltà di camminare, che calcoli necessariamente approssimati presumono essere accaduta tra i sei e gli otto milioni di anni fa. La seconda parte si apre col quarto capitolo – “Della complessità dimenticata dell’umano” – nel quale si cominciano a esaminare le conseguenze della prospettiva evoluzionistica sulla conoscenza e sulla rappresentazione dell’umano. La riduzione di questo alla sola sfera razionale è foriera di problemi sempre più seri di prestigio e riconoscimento, man mano che il processo di semplificazione ipervalorizza una componente specifica di questa sfera, il Verstand, l’intelletto calcolante che è sin dall’inizio alla base della dicotomia cartesiana delle res. Le aspettative generate dall’ipervalutazione del razionalistico nell’umano diventano progressivamente meno realistiche, perché l’umano è molto d’altro e di più della sola sfera razionale e non riesce più ad adattarsi a pretese che lo vogliono invece ridurre ad essa e valutarlo di conseguenza. Nel quinto capitolo – “Dell’inattesa potenza dell’immaginazione” – ci si familiarizza con la teoria delle strutture antropologiche dell’immaginario di Gilbert Durand, strumentario illuminante per avvicinarsi a una comprensione priva di pregiudizi della complessità dell’essere umani e del suo dispiegarsi contemporaneo su livelli diversi di significato e consapevolezza. Grazie alla presentazione dei regimi diurno e notturno, il capitolo si arricchisce di contenuti, come ad esempio il rapporto con la morte e la sua connessione con il paradigma esclusivo aut/aut e con la ricerca infinita di un fondamento, che permettono di esporre un’ipotesi strettamente correlata al modello di conoscenza del capitolo precedente: l’esistenza di un paleodigma, un insieme di tratti generativi da cui deriva in larga misura, ma senza alcuna pretesa deterministica, la forma e la traiettoria di lungo periodo di una cultura. Nel sesto capitolo – “Dell’agire a nostra insaputa” – si prova a dar conto dell’inattesa circostanza cui il ragionare appena esposto conduce: il fatto che la tanto celebrata – e assolutizzata – consapevolezza sia, più che un dato di fatto, un processo in divenire e parziale, sul quale sarebbe opportuno riflettere con onestà. Viene a supporto e dimostrazione di questa ipotesi la teoria delle azioni non logiche di Vilfredo Pareto, in particolare la giustificazione razionalizzante a posteriori, la “derivazione”, che permette agli esseri umani di agire al di fuori della razionalità strumentale mantenendo una facciata accettabile per se stessi e gli altri. Vi sono in questa teoria due aspetti interessanti: la necessità normativa di presentarsi come esseri razionali, che Pareto dà per scontata, ma che a ben pensarci non lo è affatto; la circostanza per cui l’affabulazione riparatrice non può che essere semi- o del tutto inconsapevole, a meno di postulare un autoinganno continuato e cosciente che andrebbe ben oltre il sospetto di schizofrenia cui si fa riferimento in più passi del testo. Nel settimo e ultimo capitolo – “Del creare e curare la realtà” – inizia stabilendo un legame tra inconsapevolezza e spontaneità, considerando la possibilità che, almeno a volte, sia proprio l’intervento della ragione a perturbare processi che potrebbero e dovrebbero farne a meno. Si porta così avanti di un passo la logica degli effetti positivi dei mali di Beck, anch’essa tesa a smascherare il pregiudizio sugli effetti “perversi” che deriva dall’ossessione per il controllo e dal terrore dell’imprevisto. L’ordine delle cose umane richiederebbe gioco e indeterminazione e non procedure maniacali, perché – giusta l’ipotesi che avanzo qui – le cose umane sono l’esito di un incessante processo di creazione e composizione della realtà, che si sviluppa attraverso dinamiche profonde e semiconsapevoli e sulla scorta di un sapere parziale che non si riconosce tale. Quest’ultima proposta teorica amplia la celebre teoria della cultura di Weber, ponendosi anche il problema del come sia possibile creare e mantenere la “sezione finita” della Realität in cui ogni gruppo umano dimora. I processi spontanei e inconsapevoli che vi partecipano assumono nella consapevolezza delle forme abbastanza note, delle quali però non si è finora messa in luce la profonda componente poietica e creativa. In conclusione si espone per grandi linee una teoria armonica all’ipotesi della creazione del mondo, elaborata da un celebre scienziato della complessità, Stuart A. Kauffman: la sua proposta dell’Adiacente Possibile spiega l’imprevedibilità del divenire della biosfera col continuo ramificarsi e dispiegarsi di potenzialità che passano dal Possibile all’Attuale grazie alla creatività e all’immaginazione umane, risuonando significativamente con le teorie weberiane e simmeliane e con le idee della conoscenza complessa e del paleodigma.

L'animale che immagina. Per una visione diversa dell'uomo e del suo mondo

Fabio D'Andrea
2024

Abstract

Il tema dell’essere umani torna prepotentemente all’attenzione dopo un lungo periodo nel quale lo si era ritenuto ormai privo di senso. Dalla cultura pop all’arte, dalla scienza alla filosofia alla narrativa, le riflessioni e gli stimoli in proposito sono numerosi, disordinati, contraddittori, segnale di un bisogno di comprensione che non trova sollievo e resta confinato in una scatola ormai vecchia. Questo libro prova a tracciare un cammino dell’umano out of the box, rinunciando a secoli – se non millenni – di convinzioni rassicuranti per portare alla consapevolezza la splendida difficoltà creativa dell’umanità, che sta diventando se stessa da milioni di anni, sempre più raffinata e adatta a esser parte di un processo universale, ma che negli ultimi millenni sembra aver smarrito la strada, fino ad affacciarsi sulla sua stessa autodistruzione. L’umano non è qualcosa di dato, di sacro e di immutabile: la versione che ne stiamo offrendo oggi, come mostrano sempre meglio paleoantropologia e paleoarcheologia, è solo una delle tante possibili, parziale, megalomane e pericolosa, anche se ha buone ragioni per esser così; ragioni che oggi avremmo gli strumenti per comprendere e correggere, se ne avessimo davvero il desiderio. Il libro si divide in due parti: “Temi dell’umano” e “Variazioni e fughe”. Nella prima – tre capitoli snelli – si enunciano tre piste di riflessione che verranno poi seguite nei loro andirivieni spaesanti nei quattro capitoli della seconda parte, che riguardano distorsioni invisibili del campo percettivo e cognitivo che ne adattano le configurazioni a se stesse così da restar lì tranquille, buchi neri della conoscenza che sarebbero anche osservabili, se lo volessimo davvero. Nel primo capitolo – “Della profondità del tempo” – si tratta della scoperta della scala temporale degli avvenimenti che riguardano noi come specie e il mondo e ci si interroga sulla sua effettiva comprensione. Uno dei primi motivi per questa scelta d’apertura è che in questi anni si fa un gran parlare dei salti evolutivi resi possibili se non già realizzati grazie alla tecnologia, come se i tempi dell’evoluzione fossero quelli dei nostri manager e dei nostri responsabili della comunicazione: come vedremo, questo della scala e del ritmo è un problema serio e osservandolo con pacatezza si registrano quelle più o meno piccole discrepanze che rendono visibili le distorsioni appena menzionate. Nel secondo capitolo – “Dell’essere figli di un dio” – si espone quella che chiamo la concezione creaturale dell’umano, un altro esempio di sapere teoricamente rinnegato e praticamente applicato oltre ogni limite di misura e giustizia. Secondo questa rappresentazione, l’umano è solo parzialmente di questo mondo, essendo il frutto di un intervento divino – creazione, punizione, sghiribizzo – che ha unito in un equilibrio instabile una componente materiale, il corpo, e una spirituale, prossima al divino e dai diversi nomi. La cultura occidentale è coerente con questa impostazione sin da Platone, col mito dell’Auriga, passando per le Scritture e giungendo, in tempi più recenti a Cartesio e oggi alla dicotomia hardware/software, ma è oggi difficile armonizzare questa rappresentazione con le pretese convinzioni sull’evoluzione e sulla comune appartenenza al vivente: l’osservazione dello stato delle cose dà la netta impressione che sia essa a orientare la gran parte delle scelte e delle politiche, sebbene venga di norma smentita in ogni assise. Nel terzo capitolo – “Dell’andar camminando per il mondo” – si lasciano da parte le certezze indiscusse e inconsapevoli e si presentano dati e teorie provenienti dalla comunità scientifica, ai quali viene tuttavia fatta poca attenzione e che, per le regole correnti sul processo di produzione del sapere, di rado vengono inseriti in un quadro coerente di riferimento. Ciò che emerge dall’escursione transdisciplinare è comunque che vi è oggi un diffuso consenso sul far risalire l’origine dell’umanità non alla ragione calcolante cartesiana, ma alla conquista della stazione eretta e alla connessa facoltà di camminare, che calcoli necessariamente approssimati presumono essere accaduta tra i sei e gli otto milioni di anni fa. La seconda parte si apre col quarto capitolo – “Della complessità dimenticata dell’umano” – nel quale si cominciano a esaminare le conseguenze della prospettiva evoluzionistica sulla conoscenza e sulla rappresentazione dell’umano. La riduzione di questo alla sola sfera razionale è foriera di problemi sempre più seri di prestigio e riconoscimento, man mano che il processo di semplificazione ipervalorizza una componente specifica di questa sfera, il Verstand, l’intelletto calcolante che è sin dall’inizio alla base della dicotomia cartesiana delle res. Le aspettative generate dall’ipervalutazione del razionalistico nell’umano diventano progressivamente meno realistiche, perché l’umano è molto d’altro e di più della sola sfera razionale e non riesce più ad adattarsi a pretese che lo vogliono invece ridurre ad essa e valutarlo di conseguenza. Nel quinto capitolo – “Dell’inattesa potenza dell’immaginazione” – ci si familiarizza con la teoria delle strutture antropologiche dell’immaginario di Gilbert Durand, strumentario illuminante per avvicinarsi a una comprensione priva di pregiudizi della complessità dell’essere umani e del suo dispiegarsi contemporaneo su livelli diversi di significato e consapevolezza. Grazie alla presentazione dei regimi diurno e notturno, il capitolo si arricchisce di contenuti, come ad esempio il rapporto con la morte e la sua connessione con il paradigma esclusivo aut/aut e con la ricerca infinita di un fondamento, che permettono di esporre un’ipotesi strettamente correlata al modello di conoscenza del capitolo precedente: l’esistenza di un paleodigma, un insieme di tratti generativi da cui deriva in larga misura, ma senza alcuna pretesa deterministica, la forma e la traiettoria di lungo periodo di una cultura. Nel sesto capitolo – “Dell’agire a nostra insaputa” – si prova a dar conto dell’inattesa circostanza cui il ragionare appena esposto conduce: il fatto che la tanto celebrata – e assolutizzata – consapevolezza sia, più che un dato di fatto, un processo in divenire e parziale, sul quale sarebbe opportuno riflettere con onestà. Viene a supporto e dimostrazione di questa ipotesi la teoria delle azioni non logiche di Vilfredo Pareto, in particolare la giustificazione razionalizzante a posteriori, la “derivazione”, che permette agli esseri umani di agire al di fuori della razionalità strumentale mantenendo una facciata accettabile per se stessi e gli altri. Vi sono in questa teoria due aspetti interessanti: la necessità normativa di presentarsi come esseri razionali, che Pareto dà per scontata, ma che a ben pensarci non lo è affatto; la circostanza per cui l’affabulazione riparatrice non può che essere semi- o del tutto inconsapevole, a meno di postulare un autoinganno continuato e cosciente che andrebbe ben oltre il sospetto di schizofrenia cui si fa riferimento in più passi del testo. Nel settimo e ultimo capitolo – “Del creare e curare la realtà” – inizia stabilendo un legame tra inconsapevolezza e spontaneità, considerando la possibilità che, almeno a volte, sia proprio l’intervento della ragione a perturbare processi che potrebbero e dovrebbero farne a meno. Si porta così avanti di un passo la logica degli effetti positivi dei mali di Beck, anch’essa tesa a smascherare il pregiudizio sugli effetti “perversi” che deriva dall’ossessione per il controllo e dal terrore dell’imprevisto. L’ordine delle cose umane richiederebbe gioco e indeterminazione e non procedure maniacali, perché – giusta l’ipotesi che avanzo qui – le cose umane sono l’esito di un incessante processo di creazione e composizione della realtà, che si sviluppa attraverso dinamiche profonde e semiconsapevoli e sulla scorta di un sapere parziale che non si riconosce tale. Quest’ultima proposta teorica amplia la celebre teoria della cultura di Weber, ponendosi anche il problema del come sia possibile creare e mantenere la “sezione finita” della Realität in cui ogni gruppo umano dimora. I processi spontanei e inconsapevoli che vi partecipano assumono nella consapevolezza delle forme abbastanza note, delle quali però non si è finora messa in luce la profonda componente poietica e creativa. In conclusione si espone per grandi linee una teoria armonica all’ipotesi della creazione del mondo, elaborata da un celebre scienziato della complessità, Stuart A. Kauffman: la sua proposta dell’Adiacente Possibile spiega l’imprevedibilità del divenire della biosfera col continuo ramificarsi e dispiegarsi di potenzialità che passano dal Possibile all’Attuale grazie alla creatività e all’immaginazione umane, risuonando significativamente con le teorie weberiane e simmeliane e con le idee della conoscenza complessa e del paleodigma.
2024
9791255970057
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11391/1589494
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