Il saggio dal titolo “Strumenti imprenditoriali di welfare mix. Profili di diritto commerciale”, pubblicato nel volume RINELLA-SCHIUMA, “Forme giuridiche e nuovi strumenti di regolazione del rapporto pubblico-privato nei servizi di welfare mix – profili di diritto pubblico e di diritto commerciale”, edito dalla Società cooperativa sociale – Onlus “Insieme si può”, Treviso, 2008 (che racchiude i risultati di una ricerca finanziata dalla regione Veneto nell’ambito del Progetto comunitario Equal, i cui risultati sono stati presentati il 29 febbraio 2008 al convegno dal titolo “Orizzonti dell’economia sociale”) è volto a verificare se, a fronte degli importanti e puntuali compiti che in virtù del sistema integrato dei servizi sociali di cui alla legge n. 328/2000 e del principio di sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo titolo V della Costituzione l’ordinamento italiano assegna oggi ai soggetti privati, ed in particolare ai soggetti del c.d. terzo settore, vi siano apposite regole dettate sul fronte civilistico - ed eventualmente quali - per delineare la conformazione giuridica e il modus operandi di tali soggetti. L’indagine ha posto in luce che la locuzione “enti non profit” non evoca nell’ordinamento giuridico italiano una categoria normativa, ma solo una categoria dogmatica, ricostruita dalla dottrina con riferimento ad una pluralità di enti caratterizzati sul piano civilistico soltanto in negativo, dal fatto di non perseguire uno scopo di lucro soggettivo, oltreché dal fatto di non essere disciplinati in funzione dell’esercizio di un’impresa, come accade con riferimento agli enti disciplinati nel libro I del codice civile (fondamentalmente, associazioni e fondazioni). Si tratta di enti fatti oggetto invece di legislazione speciale, dettata al fine specifico di introdurre agevolazioni (per lo più) fiscali per singoli enti o categorie di enti, ma senza, neppure in questo caso, disciplinarne l’attività imprenditoriale (con specifico riferimento alle Onlus anzi, il modello gestorio presupposto dalle norme sembrerebbe fondamentalmente di carattere erogativo, per quanto si faccia salva la possibilità di un autofinanziamento ottenuto, ma solo in parte mediante svolgimento di attività imprenditoriale; v. art. 10, comma 5, d.lgs. n. 460/1997). L’esercizio in forma imprenditoriale dell’attività delle organizzazioni private chiamate ad operare nel sistema integrato dei servizi sociali appare, pertanto, come l’esercizio di ogni altra forma d’impresa non profit, bisognoso di essere integrato in punto di disciplina. L’indagine si è spinta allora a verificare se all’esito della riforma organica del diritto delle società di capitali e cooperative, intervenuta con il d.lgs. n. 5/2003, come integrato e modificato dai c.d. decreti correttivi del 2004 (e segnatamente il d.lgs., n. 37/2004 e il d.lgs. n. 310/2004) e, successivamente, con l’emanazione del d.lgs. n. 155/2006, recante la “disciplina organica dell’impresa sociale”, il nostro ordinamento si sia arricchito oggi di regole specifiche, sul fronte civilistico, per disciplinare l’esercizio dell’impresa degli non profit e più in generale degli enti chiamati ad operare, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, nel sistema integrato dei servizi sociali. L’indagine si è concentrata pertanto sui modelli organizzativi dell’impresa nel nostro ordinamento, distinguendoli innanzitutto sul piano funzionale (impresa con scopo lucrativo, con scopo mutualistico, con scopo consortile ed ora “sociale” nel senso solidaristico) e poi, all’interno di una stessa funzione (o scopo), operando delle distinzioni sul piano organizzativo tra le specifiche forme giuridiche che possono essere assunte dall’impresa rispettivamente lucrativa, mutualistica, consortile e “sociale”, l’intento essendo quello di identificare lo statuto giuridico dei modelli organizzativi attraverso i quali possono attuarsi nel nostro ordinamento le forme giuridiche del c.d. privato sociale. Si tratta di modelli che, come l’indagine ha posto in luce: a) sono preferenzialmente, ma non esclusivamente riferiti ad enti non profit, b) ben potrebbero, a certe condizioni, giovarsi anche della composizione mista (pubblico/privata) dell’organizzazione, c) l’organizzazione mista operante nel sistema integrato dei servizi sociali potrebbe essere anche un’organizzazione societaria e d) i soci delle organizzazioni miste societarie potrebbero a loro volta essere non solo soggetti pubblici e privati non profit, ma anche privati for profit. Insomma enti, societari e non, che partecipano ad altri enti, societari e non. Il carattere misto delle organizzazioni chiamate ad operare nei servizi sociali pone delicate questioni relative alla governance, vuoi per ciò che concerne il riparto delle competenze tra organi e dei ruoli tra i partecipanti pubblici e privati all’organizzazione societaria, vuoi per ciò che concerne il coinvolgimento degli stakeholder nelle decisioni dell’ente, vuoi per ciò che concerne la scelta del tipo societario, stanti le notevoli diversità organizzative tra spa e srl e la possibilità di modellare la stessa disciplina delle società cooperative attingendo ancora una volta alla disciplina della spa e della srl. Si profila anche l’eventualità della formazione di gruppi, che vedono coinvolti in posizione di controllanti o addirittura controllati (o comunque di soggetti passivi) enti non profit, come dimostra la recente disciplina dell’impresa sociale, la quale, non solo ha testualmente previsto che l’impresa sociale possa essere organizzata in forma di gruppo, ma ha finanche disciplinato espressamente tale gruppo attraverso il rinvio alle stesse norme dettate per i gruppi societari. Il che è, del resto, coerente con la novità dirompente introdotta dalla disciplina dell’impresa sociale di consentire l'ingresso solenne delle società lucrative e, in misura più ridotta, delle società cooperative nel mondo del “sociale”. Se questo è il quadro degli strumenti potenzialmente chiamati ad operare sul fronte dell’esercizio in forma imprenditoriale degli stessi servizi sociali, la ricerca ha verificato anche quale attitudine abbiano le organizzazioni private così ricostruite ad operare in un settore peculiare come quello dei servizi sociali, le cui prestazioni hanno ad oggetto un particolare tipo di prodotto: la “relazionalità”, prodotto che, per essere fornito, presuppone l’instaurarsi di una relazione personalizzata tra operatore e utente, che costituisce il cuore del processo di aiuto, processo che sfugge ad una piena assimilazione della “socialità” ad una qualunque altra “merce”. A tal fine si è verificato se la qualità dei servizi sociali sia garantita genericamente, sul piano funzionale, dalla generica esclusione del lucro soggettivo o se vi sono anche altri presidî operanti sul piano organizzativo.
"Strumenti imprenditoriali di welfare mix (Profili di diritto commerciale)"
SCHIUMA, Laura
2008
Abstract
Il saggio dal titolo “Strumenti imprenditoriali di welfare mix. Profili di diritto commerciale”, pubblicato nel volume RINELLA-SCHIUMA, “Forme giuridiche e nuovi strumenti di regolazione del rapporto pubblico-privato nei servizi di welfare mix – profili di diritto pubblico e di diritto commerciale”, edito dalla Società cooperativa sociale – Onlus “Insieme si può”, Treviso, 2008 (che racchiude i risultati di una ricerca finanziata dalla regione Veneto nell’ambito del Progetto comunitario Equal, i cui risultati sono stati presentati il 29 febbraio 2008 al convegno dal titolo “Orizzonti dell’economia sociale”) è volto a verificare se, a fronte degli importanti e puntuali compiti che in virtù del sistema integrato dei servizi sociali di cui alla legge n. 328/2000 e del principio di sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo titolo V della Costituzione l’ordinamento italiano assegna oggi ai soggetti privati, ed in particolare ai soggetti del c.d. terzo settore, vi siano apposite regole dettate sul fronte civilistico - ed eventualmente quali - per delineare la conformazione giuridica e il modus operandi di tali soggetti. L’indagine ha posto in luce che la locuzione “enti non profit” non evoca nell’ordinamento giuridico italiano una categoria normativa, ma solo una categoria dogmatica, ricostruita dalla dottrina con riferimento ad una pluralità di enti caratterizzati sul piano civilistico soltanto in negativo, dal fatto di non perseguire uno scopo di lucro soggettivo, oltreché dal fatto di non essere disciplinati in funzione dell’esercizio di un’impresa, come accade con riferimento agli enti disciplinati nel libro I del codice civile (fondamentalmente, associazioni e fondazioni). Si tratta di enti fatti oggetto invece di legislazione speciale, dettata al fine specifico di introdurre agevolazioni (per lo più) fiscali per singoli enti o categorie di enti, ma senza, neppure in questo caso, disciplinarne l’attività imprenditoriale (con specifico riferimento alle Onlus anzi, il modello gestorio presupposto dalle norme sembrerebbe fondamentalmente di carattere erogativo, per quanto si faccia salva la possibilità di un autofinanziamento ottenuto, ma solo in parte mediante svolgimento di attività imprenditoriale; v. art. 10, comma 5, d.lgs. n. 460/1997). L’esercizio in forma imprenditoriale dell’attività delle organizzazioni private chiamate ad operare nel sistema integrato dei servizi sociali appare, pertanto, come l’esercizio di ogni altra forma d’impresa non profit, bisognoso di essere integrato in punto di disciplina. L’indagine si è spinta allora a verificare se all’esito della riforma organica del diritto delle società di capitali e cooperative, intervenuta con il d.lgs. n. 5/2003, come integrato e modificato dai c.d. decreti correttivi del 2004 (e segnatamente il d.lgs., n. 37/2004 e il d.lgs. n. 310/2004) e, successivamente, con l’emanazione del d.lgs. n. 155/2006, recante la “disciplina organica dell’impresa sociale”, il nostro ordinamento si sia arricchito oggi di regole specifiche, sul fronte civilistico, per disciplinare l’esercizio dell’impresa degli non profit e più in generale degli enti chiamati ad operare, in un’ottica di sussidiarietà orizzontale, nel sistema integrato dei servizi sociali. L’indagine si è concentrata pertanto sui modelli organizzativi dell’impresa nel nostro ordinamento, distinguendoli innanzitutto sul piano funzionale (impresa con scopo lucrativo, con scopo mutualistico, con scopo consortile ed ora “sociale” nel senso solidaristico) e poi, all’interno di una stessa funzione (o scopo), operando delle distinzioni sul piano organizzativo tra le specifiche forme giuridiche che possono essere assunte dall’impresa rispettivamente lucrativa, mutualistica, consortile e “sociale”, l’intento essendo quello di identificare lo statuto giuridico dei modelli organizzativi attraverso i quali possono attuarsi nel nostro ordinamento le forme giuridiche del c.d. privato sociale. Si tratta di modelli che, come l’indagine ha posto in luce: a) sono preferenzialmente, ma non esclusivamente riferiti ad enti non profit, b) ben potrebbero, a certe condizioni, giovarsi anche della composizione mista (pubblico/privata) dell’organizzazione, c) l’organizzazione mista operante nel sistema integrato dei servizi sociali potrebbe essere anche un’organizzazione societaria e d) i soci delle organizzazioni miste societarie potrebbero a loro volta essere non solo soggetti pubblici e privati non profit, ma anche privati for profit. Insomma enti, societari e non, che partecipano ad altri enti, societari e non. Il carattere misto delle organizzazioni chiamate ad operare nei servizi sociali pone delicate questioni relative alla governance, vuoi per ciò che concerne il riparto delle competenze tra organi e dei ruoli tra i partecipanti pubblici e privati all’organizzazione societaria, vuoi per ciò che concerne il coinvolgimento degli stakeholder nelle decisioni dell’ente, vuoi per ciò che concerne la scelta del tipo societario, stanti le notevoli diversità organizzative tra spa e srl e la possibilità di modellare la stessa disciplina delle società cooperative attingendo ancora una volta alla disciplina della spa e della srl. Si profila anche l’eventualità della formazione di gruppi, che vedono coinvolti in posizione di controllanti o addirittura controllati (o comunque di soggetti passivi) enti non profit, come dimostra la recente disciplina dell’impresa sociale, la quale, non solo ha testualmente previsto che l’impresa sociale possa essere organizzata in forma di gruppo, ma ha finanche disciplinato espressamente tale gruppo attraverso il rinvio alle stesse norme dettate per i gruppi societari. Il che è, del resto, coerente con la novità dirompente introdotta dalla disciplina dell’impresa sociale di consentire l'ingresso solenne delle società lucrative e, in misura più ridotta, delle società cooperative nel mondo del “sociale”. Se questo è il quadro degli strumenti potenzialmente chiamati ad operare sul fronte dell’esercizio in forma imprenditoriale degli stessi servizi sociali, la ricerca ha verificato anche quale attitudine abbiano le organizzazioni private così ricostruite ad operare in un settore peculiare come quello dei servizi sociali, le cui prestazioni hanno ad oggetto un particolare tipo di prodotto: la “relazionalità”, prodotto che, per essere fornito, presuppone l’instaurarsi di una relazione personalizzata tra operatore e utente, che costituisce il cuore del processo di aiuto, processo che sfugge ad una piena assimilazione della “socialità” ad una qualunque altra “merce”. A tal fine si è verificato se la qualità dei servizi sociali sia garantita genericamente, sul piano funzionale, dalla generica esclusione del lucro soggettivo o se vi sono anche altri presidî operanti sul piano organizzativo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.