Nel d.l. n. 34 del 19 maggio 2020, c.d. decreto “Rilancio”, non compare più un certo articolo 45, introduttivo del “Voto plurimo nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati”, contenuto nelle versioni circolate nei giorni precedenti. Non è chiaro quale sarebbe stata la necessità ed urgenza della disposizione, non avente nulla a che vedere con esigenze legate alla crisi economica generata dall’emergenza Covid19, donde la sua probabile incostituzionalità, per violazione dell’art. 77, comma 2, Cost. La sua ratio sarebbe stata (v. relazione) nell’essere “noto” che diversi ordinamenti giuridici stranieri, sia nell’ambito dell’Unione Europea sia al di fuori di essa, “consentono alle società per azioni, anche con azioni quotate in mercati regolamentati, di derogare alla regola «one share one vote» mediante la previsione di categorie di azioni dotate di voto plurimo”, ma l’ordinamento giuridico italiano “vieta alle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati l’emissione di azioni a voto plurimo, se non nella peculiare forma delle azioni a voto maggiorato”; e nell’essere “altresì noto” che tale differenza di regolamentazione “rischia di comportare una concorrenza tra ordinamenti, a danno del mercato borsistico italiano”. Ma in realtà chi conosce l’ordinamento giuridico italiano, e conosce anche l’esperienza delle società quotate italiane che decidono di trasferire all’estero la sede legale, sa benissimo che si tratta di ragioni che nulla hanno a che vedere con la possibilità di emettere “azioni a voto plurimo”. E, soprattutto, sa benissimo che gli ordinamenti europei che conoscono il voto plurimo non conoscono anche le azioni senza voto, e viceversa. L’ordinamento italiano in vero consente già all’autonomia statutaria l’introduzione di entrambi tali strumenti, e non solo di questi: consente infatti pure le azioni a voto limitato, non consentite in ordinamenti come la Svezia e la Danimarca, che ammettono invece il voto plurimo; consente le azioni a voto subordinato e, più di recente, le stesse azioni a voto maggiorato (c.d. loyalty share), e le consente, nonostante che siano ispirate al modello francese delle azioni à droit de vote double (che le introdusse ‘al posto’ di quelle a voto plurimo, quale premio per la fedeltà degli azionisti e quale misura di contenimento della finance court-termiste propiziata dal record date), ‘in aggiunta’ alle azioni a voto plurimo (e non al posto delle stesse), donde in Italia abbiamo le une e le altre. L’Italia è dunque l’unico tra i suddetti ordinamenti che conosce già l’intera gamma delle possibili opzioni in tema di rapporti tra voti e azioni, spaziando dalle azioni ordinarie a tutto il ventaglio delle categorie speciali, opzioni cui si aggiungono quelle modulazioni del voto che non passano per la costituzione di categorie speciali, come appunto le azioni a voto maggiorato (art. 127-quinquies Tuf) e quelle a voto, per così dire, “minorato” (art. 2351, comma 3, c.c.) riferite all’intero corpo votante. L’unico limite è dato in Italia dalla circostanza che le azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.), che sono una categoria speciale, e come tale soggetta a ben determinati equilibri con le altre categorie di azioni, non possono essere introdotte nelle società quotate (ma possono nelle altre società aperte) per evitare il cumulo del voto plurimo col diverso meccanismo del voto maggiorato, stante il timore che la 'fluttuanza' del numero totale dei voti esercitabili (in dipendenza del numero dei voti spettanti a ciascuna azione a seconda della durata dell’intestazione in capo ad uno stesso soggetto) possa compromettere quegli equilibri tra le diverse categorie di azioni che postulano invece le azioni a voto plurimo, in quanto categoria speciale, così rendendo oltremodo opaco quel mercato del controllo societario che la disciplina degli emittenti è chiamata invece a preservare. Nulla impedisce, insomma, all’autonomia statutaria di ritagliare l’abito «su misura» per mantenere saldo il controllo delle società quotate italiane, sfruttando l’intero arsenale dei c.d. Control Enhanging Mechanism (CEMs). Vero è che la comparazione giuridica, come la c.d. concorrenza tra ordinamenti, deve farsi per funzioni e non per istituti e che la vera ragione per la quale importanti società quotate italiane hanno spostato e continuano a spostare la sede legale in ordinamenti come l’Olanda non sta affatto, come appare evidente, nella presenza o meno del voto plurimo o maggiorato, le fuoriuscite non essendosi fermate neppure in seguito all’introduzione in Italia della maggiorazione del voto, seguita «a ruota» dal voto plurimo.
Quel voto plurimo nelle quotate che (per il momento) non c’è
Schiuma Laura
2020
Abstract
Nel d.l. n. 34 del 19 maggio 2020, c.d. decreto “Rilancio”, non compare più un certo articolo 45, introduttivo del “Voto plurimo nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati”, contenuto nelle versioni circolate nei giorni precedenti. Non è chiaro quale sarebbe stata la necessità ed urgenza della disposizione, non avente nulla a che vedere con esigenze legate alla crisi economica generata dall’emergenza Covid19, donde la sua probabile incostituzionalità, per violazione dell’art. 77, comma 2, Cost. La sua ratio sarebbe stata (v. relazione) nell’essere “noto” che diversi ordinamenti giuridici stranieri, sia nell’ambito dell’Unione Europea sia al di fuori di essa, “consentono alle società per azioni, anche con azioni quotate in mercati regolamentati, di derogare alla regola «one share one vote» mediante la previsione di categorie di azioni dotate di voto plurimo”, ma l’ordinamento giuridico italiano “vieta alle società italiane con azioni quotate in mercati regolamentati l’emissione di azioni a voto plurimo, se non nella peculiare forma delle azioni a voto maggiorato”; e nell’essere “altresì noto” che tale differenza di regolamentazione “rischia di comportare una concorrenza tra ordinamenti, a danno del mercato borsistico italiano”. Ma in realtà chi conosce l’ordinamento giuridico italiano, e conosce anche l’esperienza delle società quotate italiane che decidono di trasferire all’estero la sede legale, sa benissimo che si tratta di ragioni che nulla hanno a che vedere con la possibilità di emettere “azioni a voto plurimo”. E, soprattutto, sa benissimo che gli ordinamenti europei che conoscono il voto plurimo non conoscono anche le azioni senza voto, e viceversa. L’ordinamento italiano in vero consente già all’autonomia statutaria l’introduzione di entrambi tali strumenti, e non solo di questi: consente infatti pure le azioni a voto limitato, non consentite in ordinamenti come la Svezia e la Danimarca, che ammettono invece il voto plurimo; consente le azioni a voto subordinato e, più di recente, le stesse azioni a voto maggiorato (c.d. loyalty share), e le consente, nonostante che siano ispirate al modello francese delle azioni à droit de vote double (che le introdusse ‘al posto’ di quelle a voto plurimo, quale premio per la fedeltà degli azionisti e quale misura di contenimento della finance court-termiste propiziata dal record date), ‘in aggiunta’ alle azioni a voto plurimo (e non al posto delle stesse), donde in Italia abbiamo le une e le altre. L’Italia è dunque l’unico tra i suddetti ordinamenti che conosce già l’intera gamma delle possibili opzioni in tema di rapporti tra voti e azioni, spaziando dalle azioni ordinarie a tutto il ventaglio delle categorie speciali, opzioni cui si aggiungono quelle modulazioni del voto che non passano per la costituzione di categorie speciali, come appunto le azioni a voto maggiorato (art. 127-quinquies Tuf) e quelle a voto, per così dire, “minorato” (art. 2351, comma 3, c.c.) riferite all’intero corpo votante. L’unico limite è dato in Italia dalla circostanza che le azioni a voto plurimo (art. 2351, comma 4, c.c.), che sono una categoria speciale, e come tale soggetta a ben determinati equilibri con le altre categorie di azioni, non possono essere introdotte nelle società quotate (ma possono nelle altre società aperte) per evitare il cumulo del voto plurimo col diverso meccanismo del voto maggiorato, stante il timore che la 'fluttuanza' del numero totale dei voti esercitabili (in dipendenza del numero dei voti spettanti a ciascuna azione a seconda della durata dell’intestazione in capo ad uno stesso soggetto) possa compromettere quegli equilibri tra le diverse categorie di azioni che postulano invece le azioni a voto plurimo, in quanto categoria speciale, così rendendo oltremodo opaco quel mercato del controllo societario che la disciplina degli emittenti è chiamata invece a preservare. Nulla impedisce, insomma, all’autonomia statutaria di ritagliare l’abito «su misura» per mantenere saldo il controllo delle società quotate italiane, sfruttando l’intero arsenale dei c.d. Control Enhanging Mechanism (CEMs). Vero è che la comparazione giuridica, come la c.d. concorrenza tra ordinamenti, deve farsi per funzioni e non per istituti e che la vera ragione per la quale importanti società quotate italiane hanno spostato e continuano a spostare la sede legale in ordinamenti come l’Olanda non sta affatto, come appare evidente, nella presenza o meno del voto plurimo o maggiorato, le fuoriuscite non essendosi fermate neppure in seguito all’introduzione in Italia della maggiorazione del voto, seguita «a ruota» dal voto plurimo.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.