Lo “schiaffo” che cura: quando la parola ferma il corpo

Per Mary Cardinal, quelle parole, pronunciate dallo psicoanalista appena al secondo incontro, ebbero l’effetto di “uno schiaffo in piena faccia”. Ma fu uno schiaffo rivelatore, inatteso, paradossale: la colpì, sì, ma al tempo stesso la liberò, immediatamente, sorprendentemente, quasi miracolosamente, dal sintomo che la stava consumando. Quel disturbo emorragico, che sembrava inguaribile, si dissolse perché quelle parole avevano toccato non il suo viso, ma il nucleo profondo e muto della sua psiche. Eppure, proprio da quel momento, iniziarono per lei sette lunghi anni di analisi, tre sedute a settimana, senza interruzioni. Ma non era già guarita? Non erano bastate quelle due ore, quello “schiaffo” strategico, quell’evento apotropaico a dissolvere la sua sofferenza (somatica)? Perché, allora, continuare? Perché tornare? E soprattutto, perché farla tornare? Perché sottoporla a un’analisi così lunga, faticosa, costosa – fisicamente, emotivamente, economicamente, se il sintomo era già svanito?